Il viaggio di Anna

da | 19 Dic, 2014 | Lifestyle

La Casa per la Pace di Milano da diversi anni organizza “Ticket to Palestine”, un viaggio in Palestina per scoprire e capire con i propri occhi i luoghi del conflitto israelo-palestinese. Anna, insegnante milanese da anni impegnata nel progetto, ci racconta l’esperienza di questo intensissimo scambio internazionale.

“Cinque anni fa la Casa per la Pace di Milano e Handala Project di Bergamo hanno cominciato a organizzare viaggi in Palestina per giovani tra i 20 e 40 anni. L’obiettivo era far visitare i luoghi del conflitto, incontrare associazioni e attivisti per i diritti umani, condividere frammenti di vita quotidiana con i giovani palestinesi dei campi profughi. Il viaggio, che si tiene in estate, si divide in tre parti: la prima è dedicata all’incontro con associazioni israeliane che si battono per la pace e la salvaguardia dei diritti umani, a Gerusalemme, Jaffa e Tel Aviv. La seconda è nella zona settentrionale dei territori – la zona più colpita dal conflitto – con visite a Nablus, Tulkarem, Jenin e Ramallah. La terza va nella zona meridionale: Betlemme, Hebron, Beit Jalla. L’obiettivo è quello di far osservare gli esiti del confitto e di capirne le cause, senza mediazioni e in autonomia, per esserne testimoni una volta tornati in Italia. Durante il viaggio si parla con tante voci diverse, uomini, donne e ragazzi che ogni giorno si battono per la giustizia e la pace”.

Una situazione sempre allarmante
Quello di questo 2014 è stato un viaggio particolare. La situazione che si è creata a Gaza ha convinto molti a rimandare la partenza. “Avevamo progettato il viaggio ed eravamo convinti che tutto potesse procedere tranquillamente. All’inizio dell’estate abbiamo intuito che l’atmosfera era pesante. Alcuni hanno preferito rinunciare. I racconti preoccupanti dei volontari che vivono nel campo profughi di Nablus ci hanno convinti a sospendere il viaggio. Io però non me la sono sentita di lasciare gli amici in un momento di grande difficoltà e, con le dovute precauzioni, sono partita lo stesso. In realtà, una volta in Cisgiordania, mi sono resa conto che le notizie che giungevano in Italia erano più allarmanti della realtà. O meglio, la situazione che ho trovato era esattamente quella degli anni scorsi: la violenza può scoppiare da un momento all’altro, senza preavviso, in un’atmosfera di perenne tensione”.

La Scuola di Gomme
A Gerusalemme Anna ha incontrato le associazioni pacifiste che denunciano la violazione dei diritti umani nei territori occupati. Ce ne sono di completamente israeliane, come B’Tselem e Ikahd, o miste israelo-palestinesi, come Parent Circle, che riunisce famiglie di entrambe le parti che hanno subito lutti nel conflitto. Nei campi profughi ci sono associazioni che si occupano di attività ricreative per i bambini, come Human Supporter di Nablus, che collabora con le scuole palestinesi e organizza campi estivi con un’attenzione particolare al supporto psicologico. “Ci sono anche altre realtà interessanti, più giovani e un po’ meno organizzate, che stanno ampliando le attività e portano avanti un’azione di fondamentale importanza per i bambini. Il Keffiyeh Center, nel campo di New Askar, fornisce assistenza ai bimbi stimolando il gioco, lo sport e la creatività. Con loro ho partecipato a rappresentazioni teatrali, ballato le danze tradizionali palestinesi e provato la strana sensazione di fare il bagno in piscina totalmente vestita.

Un’emozione particolare l’ho provata partecipando all’inaugurazione del nuovo anno scolastico nella Scuola di Gomme di Khan al Ahmar, campo beduino tra Gerusalemme e Gerico. Duemila pneumatici sono stati usati per costruire le pareti dell’edificio e per garantire il diritto all’istruzione dei beduini palestinesi, che vivono in condizioni di estrema marginalità. La scuola è stata realizzata con pneumatici, argilla e legno per non contravvenire ai regolamenti militari israeliani che vietano la costruzione non autorizzata di edifici nella cosiddetta area C, un’ampia fetta del territorio rurale controllato e amministrato da Israele. La scuola ospita oggi cento bambini della comunità Jahalin. L’associazione Vento di Terra di Rozzano ha progettato l’edificio in architettura bioclimatica e coordinato la squadra di operai locali che in due settimane hanno realizzato la struttura. Nell’agosto del 2009 il Ministero dell’Istruzione palestinese ha riconosciuto ufficialmente l’edificio. La scuola, che è dotata di un impianto fotovoltaico, ospita cinque classi elementari”.

Infanzia negata
Cosa significa essere un bambino in Palestina? “Crescere in Palestina significa crescere in un paese occupato. I bambini sono costretti a diventare adulti in fretta e a confrontarsi con la violenza che li circonda: devono spesso fare i conti con l’incarcerazione dei propri familiari e subire le incursioni e le devastazioni delle proprie case. Le conseguenze di tutto ciò sono attacchi di panico. Le associazioni e le scuole devono mettere in campo azioni di assistenza psicologica per aiutarli a gestire la rabbia e l’ansia che li assale. I campi estivi hanno restituito una grande attenzione all’infanzia da parte delle famiglie e degli operatori, con tutti i limiti che una situazione di guerra può provocare. I giovani che ho incontrato sono persone che vivono una vita intensa: l’abitudine a un rapporto vicinissimo con la morte li costringe ad arrivare diretti al senso ultimo delle cose, a godere attimo per attimo dell’esistenza. Spesso mi sono sentita rimproverare per lo spreco di libertà e l’estremo consumismo che il mondo occidentale mette in atto quotidianamente”.

Osservare e testimoniare
Racconti ai tuoi alunni dei tuoi viaggi? “Devo confessare che faccio sempre più fatica a raccontare le esperienze in Palestina. La disponibilità all’ascolto non è così scontata. Spesso mi trovo a raccontare le mie strane vacanze a ragazzi che hanno fatto viaggi pazzeschi dall’altra parte del mondo, ma che affrontano il viaggio e la loro stessa esistenza in modo sempre più egocentrico. Però in altri casi sono riuscita a coinvolgerli e appassionarli. Si sono immedesimati nelle parti in causa. E confesso che hanno risolto centinaia di volte il conflitto palestinese-israeliano”. L’obiettivo del viaggio è portare testimonianza. “Chi torna porta un bagaglio di emozioni e reazioni molto vario. Nella maggior parte dei casi prevale la rabbia, assieme a un senso di impotenza, che si combatte mettendo in campo ciascuno le sue competenze per sostenere la causa della pace, con mostre e spettacoli, laboratori, corsi e percorsi formativi. In questi ultimi anni i nostri calendari, realizzati con le fotografie scattate durante i viaggi, hanno riscosso un grande successo”. Si trovano, assieme a informazioni e date per le prossime partenze, su www.casaperlapacemilano.it.

[Luisa Beretta]

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