Per mano alla mamma. Una storia (vera) di viaggi con i bambini

da | 20 Nov, 2018 | Lifestyle

La storia, vera, dei viaggi con i bambini. Una mamma, i bambini, la separazione, i primi pensieri tristi (i più tristi mai avuti) e lo splendido, tenerissimo viaggio a Parigi

Nevica. Mentre inizio a scrivere il racconto di noi tre in viaggio, nevica a piccoli puntini bianchi che a milioni danzano in caduta libera, scomposta e necessaria fino a che il candore copre tutti i colori del paesaggio alpino – oltre questa grande finestra – e crea una pagina bianca, bianchissima, per cominciare a raccontare.

Bianca e impossibile

Parto da qui: dalla prima volta che sono stata in questo posto, Chamois, Valtournenche, Valle d’Aosta, otto anni fa, 1800 metri, un paese raggiungibile solo in funivia. Noi eravamo, allora, ancora in quattro. Era Ferragosto, giornata scintillante, di quelle che sembra che la sera non arriverà mai, che il sole starà lì per sempre, bollente e altissimo.

Un amico festeggiava i suoi 40 anni con moglie e quattro figli, mentre io e il papà dei miei bambini non avevamo raggiunto i 35, il nostro piccolo (da adesso il Piccolo) e il nostro grande (il Grande) ne avevano rispettivamente 2 e 4 e mezzo.

Di quella giornata ho tre ricordi precisi: la stretta al cuore data dal presentimento che, noi, a quattro figli non saremmo arrivati. La sensazione di libertà immensa e inusuale che mi dava camminare in montagna. Il momento in cui la moglie dell’amico mi diede una forchetta in mano e una ciotola di bianchissima panna liquida e mi disse: puoi montarla a mano per favore?

La guardai allibita e pensai: ma questa è matta. Mi sta chiedendo una cosa impossibile. O, almeno, eterna. E invece ci riuscii: un po’ mi aiutò il paesaggio che ispirava pazienza e saggezza, un po’ la compagnia e le chiacchiere, un po’ la voglia di vedere come sarebbe andata.

A dispetto di tutto, la sera arrivò e ci riportò a Torino, ciascuno avvolto nei propri pensieri, mentre Chamois, le sue vette viola e i fili alti delle erbe nei prati, trovavano un posto nel mio cuore.

Punto a capo (e altri punti di partenza)

Quando il Piccolo ebbe 4 anni e il Grande 7, il padre dei miei figli e io ci separammo. Uscimmo dal tribunale in una glaciale giornata di gennaio, mentre fuori gli operai del Comune potavano i platani e il rumore delle auto attutiva il suono dei rami che cadevano al suolo.

Nella mia testa spuntavano, tra le lacrime, dei timidi punti esclamativi: finalmente deciderò da sola ciò che voglio fare! Finalmente in vacanza in posti diversi! Finalmente potrò incontrare, senza guardare l’orologio, “i miei amici e amiche”!

Tuttavia, i punti esclamativi titubarono un po’ quando allargai il campo visivo sulla mia vita: un lavoro amato, bizzarro e a singhiozzo, due figli che da non molto avevano imparato a vestirsi da soli, i nonni troppo lontani.

Ed ecco, allora, a decine, i punti di domanda: come fronteggio il groppo in gola ogni volta che mi siedo a tavola con loro, da sola? Come posso lavorare, andare a prenderli a scuola e all’asilo, addormentarne uno mentre l’altro chiama dall’altra stanza? Come faccio la spesa con uno nel carrello e l’altro che ci si arrampica sopra e il carrello è già pesantissimo pur essendo ancora vuoto?

La famiglia si era trasformata e mi sembrava liquida, sfuggente e destrutturata come la panna da montare di Chamois.

Similitudini come onde sugli scogli

Per chi scrive, le similitudini sono una salvezza e una rovina. Contengono un po’ di verità, ma non calzano la realtà dei fatti: sono un vestito bellissimo che, una volta indossato, non riesci ad allacciare.

Ma allora non lo sapevo: pensavo solo, molto ottimista, che come per la panna montata sarebbero bastate una pazienza infinita, uscire dalla solitudine e – ne ero certa – un posto molto bello e col sole.

Così, per le prime vacanze di Pasqua da separata, colsi al volo la riapparizione di una amica austriaca che, con il bambino coetaneo del Grande e suo marito, ci proponeva una vacanza a Rio Maggiore, Cinque Terre, Liguria.

Gli ingredienti c’erano tutti: il posto bello, la compagnia, la libertà, il sole. Eppure, nonostante le premesse, sulle coste liguri scoscese e selvatiche il naufragio delle aspettative fu colossale.

Non ho nemmeno una foto di quella vacanza, le mani sempre in tasca per il vento tagliente che affettava il cuore, mentre la casa in cui eravamo era piccola, triste, buia e costosa.

Ma rivedo nitida la spiaggia di sassi di Monterosso e la mia amica Suzanne che prende per mano i miei figli e li porta a bagnarsi i piedi nell’acqua scuotendo un po’ la testa e io posso, per qualche minuto, piangere in pace perché tutto, dalla nanna al cibo, dal farmi ascoltare da loro due, indiavolati dallo iodio, al riuscire a camminare per più di cinque minuti senza prendere in braccio il Piccolo, tutto è stato un disastro.

Ho avuto, in quei giorni, i peggiori pensieri della mia vita, proprio i peggiori che si possano immaginare, che si sono, grazie ad angeli custodi che non erano in vacanza a loro volta, risolti solo nei peggiori sguardi della mia vita e nel peggior castigo che abbia mai inflitto – niente uova di Pasqua! – e nella sensazione che tutta quella fluida e colorata bellezza di Rio Maggiore-Manarola-Corniglia-Vernazza-Monterosso fosse l’opposto esatto della mia vita.

La compagnia degli amici austriaci si era rivelata più giudicante che sostenente, l’armonia di una famiglia felice una fonte d’invidia cosmica e il ritorno a casa un sollievo, per tutti: per i bambini perché avrebbero rivisto il papà, la cui presenza-assenza non aveva ancora – nei loro cuoricini – acquisito quel ritmo rassicurante che in seguito avrebbe trovato.

Per me fu il ritorno tra le amiche alle quali raccontare la disfatta totale e le emozioni più cupe. Ma era quello il sapore sognato della libertà?

Scambio di consigli, scambio di case

A cavarmi dall’impiccio mentale fu il consiglio di una carissima amica che aveva un paio d’anni di esperienza in più in materia di separazione e di viaggi. Mi iscrissi così a un sito di scambio casa.

Arrivò nel giro di pochissimo una proposta per il novembre successivo: una famiglia francese ci offriva la sua casa di Parigi in cambio della mia, per cinque giorni. Prendemmo un treno galattico e silenzioso con una quantità insufficiente di viveri (in sei ore di viaggio si mangia moltissimo), ma molta gioia.

Nel frattempo, a casa nostra a Torino, il gatto accoglieva, sospettoso e curioso, la famiglia francese. Il sistema di scambio delle case è un’idea rivoluzionaria e collaudata in tutto il mondo, nella sua semplicità: io ti lascio la mia casa e vengo a stare nella tua.

Ci impegniamo a curare i rispettivi spazi come fossero nostri, nessuno paga niente, le pulizie sono a cura di chi torna. E, quando arrivammo a Parigi, l’idea che questa modalità di viaggio avrebbe rivoluzionato – oltre che il sistema del turismo e la mente delle persone – anche il nostro modo di girare l’Europa e poi, in un delirio d’onnipotenza, anche il mondo, brillava dentro di me come una stella polare.

Parigi, Natale è già qui

La casa è al nono piano di un palazzo modernissimo e al posto delle pareti, quasi ovunque, finestre. Vetri, vetri e vetri come mille occhi sulla città, sui viali, sugli accostamenti architettonici che mescolano liberty a  ori di cemento e strutture trasparenti, di una Parigi che ci appare splendida.

Dall’alto non è una città grigia, ma bianchissima e candida quasi, con le case i palazzi i parchi come altrettanti pacchetti regalo sotto l’albero di Natale perenne della Tour Eiffel che svetta là fuori, davanti a noi.

Finalmente è nitida la sensazione di essere in un posto e in un momento speciali, in pace, al centro esatto di una nuova fase della vita. Finalmente i punti esclamativi possono danzare nella testa senza ombre e si moltiplicano impazziti quando, allo scoccare delle sette di sera la Tour Eiffel già magicamente illuminata nella nebbiosa – e ancora più affascinante – sera parigina, diventa un flipper di luci intermittenti e sembra che stia per prendere il volo e portarci sulla luna, se sulla luna non ci sentissimo già.

A contribuire all’effetto “sballo” c’è una delle magie ripetibili, ma sempre nuove dello scambio casa con famiglie che hanno bambini: l’esperienza di scoprire i giochi e i libri di chi ci ospita.

Avete presente il giorno di Natale? Ecco, la stessa cosa, in un’altra casa e senza svenarsi. In nessun albergo o casa in affitto potrebbe accadere. Così, mentre loro scoprono i giocattoli, io cucino, in una cucina ipermoderna dove non manca una spezia, dove i cassetti capienti scorrono avanti e indietro su guide che sembrano unte di burro, e mi sembra di giocare con la casa delle bambole: quali piatti metto? Quali bicchieri? Quali tovagliette colorate?

Sento la presenza della famiglia di questa casa, come se ogni cosa fosse viva, perché toccata con cura, pulita con amore, riordinata, festeggiata, amata. Mi sento accolta, al sicuro, serena. Mi sento a casa. E spero che anche loro, a casa nostra a Torino, stiano altrettanto bene.

I bambini suonano mille strumenti giocattolo che li fanno sembrare gli Aristogatti. La Tour Eiffel luccica. La pasta al sugo (quella ce la portiamo dietro ovunque) arriva in tavola. Io verso il vino che mi hanno lasciato come regalo di ben arrivato i miei amici. Buonanotte.

Fare a pugni con l’arte. E con la vita dopo la separazione

Fu un bellissimo viaggio. Pochi i momenti di tensione, forse anche grazie al fatto che ho deciso di non massacrarli di camminate.

Ci orientiamo come topolini veloci nella metro parigina, guardiamo la città dall’autobus, se siamo sfiniti ci concediamo un taxi. Un viaggio a loro misura fatto di parchi, gallerie d’arte amiche dei bambini, musei interattivi, spazi per correre.

A Parigi, per sentirmi nel favoloso mondo di Amélie, tornerò da sola un’altra (poi molte!) volta. Giusto una mattina, in cui il Grande non vuole mettersi la giacca a vento (“io oggi esco in felpa” dice con la sicurezza di un trentenne) mentre Parigi sfodera la sua giornata di freddo più freddo che si infila anche sotto le unghie, si crea una certa tensione.

Non ricordo come ne sono uscita. Ma so che dopo poche decine di minuti eravamo al Centre Pompidou con un iPhone (“ma è un iPhone e lo posso usare?”) collegato a un paio di cuffiette e loro che, digitando sicuri, passano da un’opera all’altra ascoltando tutta tutta l’audioguida.

E, sempre lì, in uno spazio artistico creato da Matali Crasset, designer francese, dove i bambini possono toccare, esplorare, prendere a pugni strani punching-ball colorati, correre, annusare, il Piccolo, mentre sferra cazzotti (legittimi e permessi dall’artista) contro una selva di mani nere e arancioni di gomma, dice tra i denti più volte una frase forte e liberatoria: “Ma chi è stato quell’intelligentone che ha deciso di separarsi?”.

Ci sediamo davanti a una crepe suzette, che gli fa i baffi di cioccolato e ne parliamo un po’. Io ne vorrei parlare anche tanto e li guardo negli occhi ipnoticamente ripetendo: “ricordatevi sempre che non è colpa vostra”.

Loro annuiscono, ma dopo cinque minuti sono già distratti e sgambettano facendosi i dispetti sotto il tavolo.

Da grande farò…

Fuori dal Centre Pompidou, sulla piazza, musicisti, giocolieri e artisti di strada colorano d’incanto il tramonto ora stranamente tiepido di novembre. E strappano al Piccolo la seconda frase forte della giornata: “Io da grande, ne sono sicuro, faccio il giocoliere”. Il suo faccino felice che cerca di abbracciare un’enorme bolla di sapone iridescente mi fa sperare che il mondo, con la sua meraviglia, li consolerà di tutto quello che è andato storto e pure stortissimo.

Ma tra passato e futuro è il presente a portare via la massima concentrazione, come quando, due giorni dopo, a la Cité de Sciences, i bambini possono sperimentare una serie di leggi di fisica, fisiologia, statica, dinamica, grazie a giochi ed esperimenti che li coinvolgono e li affascinano.

Ne amano uno in particolare: c’è un enorme recipiente, un tubo e una pompa d’acqua. Si riempie il recipiente pompando acqua finché è colmo e si rovescia nella vasca, con la massima soddisfazione dei figli.

Anch’io amo questo esperimento: perché se si sfogano con la pompa, forse per un po’ sono salva, penso notando una certa somiglianza tra l’esperimento di fisica sul “superare la misura” e alcune dinamiche psicologiche bambino-mamma.

E così è stato, vario e commovente, il nostro primo splendido viaggio parigino. Siamo tornati a Torino a malincuore, quella volta, con il desiderio espresso ad alta voce di tornarci d’estate, per giocare con la sabbia e le barchette nel laghetto dei Jardin du Luxembourg, per andare a Disneyland, per stare seduti in un caffè all’aperto ascoltando la musica.

Perché ci sono un sacco di cose da fare in maniche corte, qui. Perché ormai abbiamo imparato come fare, a viaggiare in tre. Perché quando esci dalla porta di casa e ti affidi alle braccia del mondo ti accorgi che ad accompagnarti nel viaggio della vita con i tuoi bambini ci sono tante persone, case e situazioni bellissime. Forse forse, riproveremo anche a tornare alle Cinque Terre e, prima e dopo, in molte altre terre ancora.

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