I bambini in Africa e i bambini in Europa: le differenze

da | 24 Mar, 2016 | Lifestyle

Per decenni abbiamo assistito alla progressiva medicalizzazione della gravidanza. Poi la tendenza si è invertita, con un “ritorno alle origini” e la rivalutazione di pratiche antiche. Parto in casa, bambini portati in fascia, pannolini lavabili, autosvezzamento, allattamento a richiesta, cosleeping: c’è qualcosa che accomuna queste nuove tendenze? In buona parte sono pratiche antiche, derivate dalla semplice esperienza del “modo semplice e intuitivo” di crescere i bambini. E in quanto pratiche semplici, sono diffuse in molte altre culture, specialmente quelle dei Paesi Terzi. Prima tra tutte, l’Africa. Per quanto sia facile scivolare in luoghi comuni, la diffusione di “nuove pratiche” nasce da temi critici che farebbero sorridere molte mamme africane. I problemi che sono una fonte di ansia e stress per le mamme “bianche”, le paranoie genitoriali che vanno dal ciuccio alla nanna, dal sonno all’allattamento, sono meno sentite sull’altra sponda del Mediterraneo. Le donne africane applicano naturalmente quello che qui è andato perduto: la lentezza della maternità e il rispetto dei tempi del neonato, tempi che lì vengono assecondati, mentre qui sono incompatibili con la frenesia del modo di vivere.

Proteggere dallo stress

I bebè africani sono più felici di quelli occidentali. Per questo piangono meno. A raccontarlo è J. Claire K. Niala, osteopata, scrittrice e mamma keniota. Cresciuta in Gran Bretagna, con due lauree in tasca, Claire è figlia di due culture apparentemente lontane. “Quando mi sono accorta di aspettare una bambina, ho fatto quello che la maggioranza delle donne nel Regno Unito fanno: ho letto voracemente. I titoli erano: I nostri bambini, Noi stessi, Unconditional Parenting. E l’elenco potrebbe continuare. (Mia nonna ha poi commentato che i bambini non leggono libri e, davvero, tutto quello che dovevo fare era ‘leggere’ il mio bambino)”. Claire ha deciso che era meglio trasferirsi in Africa per crescere sua figlia, così ha lasciato l’Inghilterra ed è partita. “Tutto quello che avevo letto spiegava che i bambini africani piangono meno dei bambini europei. Mi incuriosiva conoscere il perché. Quando sono tornata a casa ho osservato, ho guardato. Madri e bambini erano ovunque, anche se molte giovani africane, prima delle sei settimane del neonato, stanno essenzialmente a casa. La prima cosa che ho notato è che, nonostante la loro ubiquità, è abbastanza difficile ‘vedere’ un bambino keniota. Di solito sono incredibilmente ben avvolti prima di essere trasportati o legati sulle loro madri (a volte sul padre). Anche i bambini più grandi che vengono portati sulla schiena sono protetti dalle intemperie da una grande coperta. Saresti fortunato a scorgere un arto, figuriamoci un occhio o il naso. La protezione è una replica dell’utero. I bambini sono letteralmente protetti dallo stress del mondo esterno in cui stanno entrando”.

Il puerperio è sacro

Per la puerpera, i primi quaranta giorni post partum sono sacri. Grazie al supporto di una famiglia allargata, composta da nonne, zie e nipoti, la neo mamma può concedersi il tempo di entrare in sintonia con i ritmi del bambino. Passato questo periodo, torna alle attività di sempre, mantenendo però un alto contatto.

In Europa il puerperio non è riconosciuto, da quando la maternità ha invertito la tendenza ed è diventata “uno degli eventi da sbrigare” nella vita di una donna. Le neo mamme, al contrario di quel che sarebbe logico pensare, si trovano da sole. Lo stile di vita ad “alto contatto” sembra una scoperta e non è sempre praticabile, per il modello sociale e per la diffusione del messaggio che porta. In Africa cosleeping, allattamento a richiesta e il portare sono pratiche diffuse, una tradizione consolidata. Le bambine imparano a farlo da piccole, legandosi i fratellini sulla schiena. Il sonno fa parte di uno stile di vita: si dorme a contatto della madre e del seno prima, dei fratelli maggiori poi. Si dorme legati alle schiene materne, dondolati dal ritmo delle danze delle cerimonie di famiglia. Ve l’immaginate un bambino europeo? Avete presente gli amici che ti invitano a casa e ti vietano di starnutire o di tirare lo sciacquone per non svegliare il bambino? Avete presente i genitori disposti a macinare chilometri in automobile intorno all’isolato all’una di notte, in pantofole e pigiama, pur di addormentarlo?

Latte, pappette e farina

“Quando mia nonna è venuta a trovarmi – racconta Claire Niala nella sua storia di educazione africana -, il mio bambino ha pianto per una discreta quantità di tempo. Esasperata e stanca, ho dimenticato tutto quello che avevo letto. Mi sono lasciata andare anch’io al pianto. Eppure, per mia nonna era semplice: ‘Nyonyo (allattalo)!’. Qualunque fosse il disagio (fame, freddo, sete, dolore), il rimedio è solo uno: il latte materno e il contatto. In questo, i neonati africani sono facilitati rispetto ai bambini occidentali. Avvolti in una fascia e trasportati dietro la schiena della mamma, hanno un rapporto simbiotico tra due bisogni che si incontrano”. Sul cibo, quello che in Europa chiamiamo autosvezzamento, in Africa è un’abitudine consolidata. Passati i primi mesi di vita, ai bambini vengono somministrati riso, frutta e pappette zuccherate a base delle farine più diffuse (tapioca, mais, manioca, riso). Senza drammi e senza ansie. Bambini malnutriti ancora ci sono, così come errori nutrizionali o false credenze sulla scelta dei cibi, tuttavia nonostante esistano oggettive condizioni di povertà, le madri africane riescono a crescere i figli. L’allattamento prolungato, fino a due o tre anni di vita, preserva dalle malattie. E non può che risuonare imperiosa la dichiarazione di un pediatra africano che, durante un convegno in Italia, ha detto: “La differenza è una. In Italia le madri rincorrono i figli per farli mangiare. In Africa i bambini inseguono le madri per chiedere cibo”.

Senza pannolino

Non facciamoci trarre in inganno dall’immaginario comune sullo stile di vita africano. Se è pur vero che moltissime donne non lavorano – nel senso occidentale del termine – e che l’accesso alla scolarizzazione femminile è una percentuale bassissima (parliamo di oltre venti milioni di bambini fuori dal ciclo scolastico, il 60% dei quali sono bambine), le nuove generazioni si stanno affrancando dai ruoli tradizionali. Le donne africane lavorano, studiano, vanno all’università e stanno imparando a conciliare questi ruoli con quello tradizionale di moglie e madre. Ma anche in realtà “arretrate” come i villaggi, le donne lavorano e faticano per accudire la famiglia. In un luogo senza acqua corrente né energia elettrica, lavare i panni è più di un lavoro. Non a caso il problema dello spannolinamento non esiste: i bambini utilizzano pezzuole più simili ai nostri ciripà solo per i primissimi mesi di vita e vengono avvicinati al vasino in età precocissima. In occidente si chiama “Elimination communication” e sono tornate a parlarne, nei primi anni 2000, Laurie L. Boucke e Ingrid Bauer. La pratica di lasciare un bambino impacchettato in ovatta, polimeri e plastica, ma soprattutto a costante contatto con i propri bisogni, qualunque sia la stagione, giorno e notte, è percepita come una follia antigienica in più parti del mondo.

L’inevitabile ciclo della vita

Anche la morte di un figlio, tragicamente frequente, è accettata come conseguenza del ciclo della vita. Non è difficile ascoltare una madre parlare con naturalezza di uno o più neonati morti a causa di una banale dissenteria o di una febbre malarica; qualcosa di assolutamente inconcepibile qui da noi, che ci permettiamo il lusso di riflettere sul benessere individuale derivante dalla scelta di non vaccinare i nostri figli. In Europa la morte è un tabù: non si vuole invecchiare, figuriamoci morire. In Africa la morte fa parte della vita. E in un continente dove l’aspettativa di vita alla nascita è di 56 anni, a causa soprattutto dell’altissima mortalità infantile (150 bambini su 1.000 non arrivano ai 5 anni di età) non potrebbe essere diversamente.

Responsabilità e capricci

La cultura africana, in questo senso, assomiglia molto a cos’era l’Italia un centinaio di anni fa. Una vita di comunità che cura gli anziani e responsabilizza i bambini, restituendo loro il ruolo di astanti e agli adulti quello di esempio da seguire. I bambini africani non solo non piangono, ma sono esenti da capricci e scenate che atterriscono i genitori occidentali. I bisogni dei bambini africani sono più facilmente soddisfatti: se non c’è la mamma ci sarà un fratello, un cugino, uno zio più grande con cui giocare o a cui chiedere aiuto. E ci sarà un bambino più piccolo di cui prendersi cura. Non a caso in Benin si chiamano “frères et soeurs” molti bambini che non hanno relazioni di sangue, a indicare l’importanza della famiglia allargata e dei legami che si creano tra chi cresce vicino.

In Occidente si invecchia soli e da soli si crescono i figli. Ma è giusto? A Seattle si sta sperimentando la prima casa di riposo che abbina attività per anziani a quelle per bambini, per far sentire utili i primi e avvicinare i secondi al naturale processo di invecchiamento. Un azzardo o una visione lungimirante? Il punto è che un complesso intreccio di relazioni familiari, compreso l’alto contatto richiesto da un neonato, poco si concilia con l’emancipazione femminile. Affrancarsi dal ruolo di moglie e madre ha portato a sacrificare una parte ancestrale e istintuale dell’essere donna. Ma per la nostra completezza, non dovremmo piuttosto rivendicarla, proteggerla, riscoprirla, seguirla? Stiamo muovendo i primi passi in questa direzione, riappropriandoci di qualcosa che ci appartiene. Continuare a farlo significa permettere alle generazioni future di donne di veder rispettati molti più diritti e molte più libertà di scelta.

La storia completa di Claire Niala si trova sul sito www.incultureparent.com/2010/12/why-african-babies-dont-cry ed è tradotta sul
sito Eticamente (www.eticamente.net/11232/ecco-perche-i-bimbi-africani-non-piangono.html).

[Sara Tassara]

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