Due concetti di disobbedienza

da | 25 Nov, 2015 | Lifestyle

Si (dis)obbedisce per definizione a chi ha l’autorità di dare un comando o formulare una norma. Ma disobbedire all’autorità legale non è comparabile con il disobbedire ai genitori, perché diversa è la situazione relazionale del bambino e dell’adulto.

Il bambino si trova in una situazione di naturale dipendenza (“attaccamento”) rispetto ai genitori: questa dipendenza non potrebbe in nessun modo venire spezzata, se non in comunità educative molto diverse da quelle dell’occidente moderno. Il signore delle mosche di William Golding narra una lugubre storia distopica, nella quale i bambini rimasti improvvisamente abbandonati a se stessi per un naufragio esprimono fino in fondo la loro volontà di sopraffazione sui più deboli. E come non ricordare l’utopia di Peter Pan? Una comunità autonoma di bambini ribelli e indipendenti dagli adulti. Nel paese dei balocchi di Pinocchio, invece, i bambini sono individui isolati, non c’è comunità ma mera vicinanza di piccoli edonisti atomizzati.

Il cittadino di un moderno stato democratico si trova invece in una situazione di asimmetria rispetto alle istituzioni (se vogliamo parlare di relazione di dipendenza di un individuo rispetto agli altri, dovremmo parlare piuttosto di società).

C’è insomma una differenza tra la disobbedienza infantile e la cosiddetta disobbedienza civile, il cui concetto e la cui pratica fu inventata da David Thoreau nel 1845. Il cittadino di un moderno stato democratico vi aderisce per utilità, non per un vincolo sacro: quindi se il governo non fa ciò che ritengo giusto io sono legittimato a ribellarmi pacificamente (come Thoreau che non pagava le tasse al governo americano perché questo era impegnato nella guerra contro il Messico). Nella prospettiva psicoanalitica i due tipi di disobbedienza vengono accomunati: per Freud e i suoi discepoli si ubbidisce sempre all’autorità paterna, esteriore e fisica nel caso del bambino, interiorizzata e dunque immaginaria nel caso dell’adulto. Ogni rivolta contro l’autorità è rivolta contro il Super-io. Nel caso del bambino, “perverso polimorfo”, la disobbedienza è una forma di sperimentazione; nel caso dell’adulto la ribellione all’autorità è comunque un fatto psicologico prima ancora che un fatto di valori e di giustizia (forse non è stato ben superato il complesso di Edipo). È un punto di vista chiaramente inconciliabile con quello dei teorici moderni della nonviolenza: quando Gandhi organizzò in India la grande disobbedienza di massa passata alla storia come “marcia del sale” (1930), riteneva di lottare per la Verità (Satyagraha, parola inventata da Gandhi significa proprio “forza della verità”).

In prospettiva etico-politica la disobbedienza è una risposta all’ingiustizia: un’ingiustizia che non può essere esclusivamente un fatto individuale ma richiede un’avvenuta integrazione dell’individuo in un orizzonte comunitario. La disobbedienza del bambino ha dunque in comune con quella civile una ribellione contro la percezione di un’ingiustizia: il percorso che porta dai capricci dell’età infantile alle rivendicazioni politiche può svolgersi in molte direzioni. In questo, il ruolo dei genitori, della loro autoeducazione come genitori, è anche quello di capire che essi non incarnano l’obiettività della Legge (“si fa così perché è giusto così”), ma soltanto una sua istanza sempre imperfetta, fatta per lo più di esigenze altrettanto egoistiche di quelle del figlio.

[Edoardo Acotto]

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