I manuali per educare i figli servono a qualcosa?

da | 30 Ott, 2018 | Libri, Lifestyle

Il paradosso del genitore: leggere manuali per educare i figli anche se sappiamo che non funzionano. Perché lo facciamo?

Con il solito stile riflessivo e ironico della rivista più antica (e più diffusa) del mondo anglosassone, Adam Gopnik esamina tre manuali di genitorialità che sono diventati best seller negli Stati Uniti.

Dopo un decennio dominato dallo scontro Mamma Tigre vs Metodo Maman (ovvero il modello del genitore asiatico contro il genitore francese) adesso arriva il metodo tedesco.

Adam è perentorio: ciò che non va con questi libri è che non possiamo apprendere i principi dell’educazione da altri. Soprattutto se abbiamo dei problemi con i principi stessi.

The German Style

Non ancora tradotto in Italia, il libro “L’arte tedesca di crescere figli autosufficienti” di Sara Zaske è estremamente tedesco.

Un metodo altamente sistematico per non essere altamente sistematici. In nessun’altra parte al mondo si possono trovare forme più controllate di libertà o regole più centralizzate per una creatività anarchica.

I bambini non sono solo incoraggiati a non essere dipendenti dai giocattoli, ma c’è un giorno al mese “senza giocattoli”, dove è proibito giocarci.

Gli adolescenti sono assecondati nei loro desideri incontrollati. Ci sono interi parchi progettati appositamente per i teen. Possono girare in tutta la città, con poche regole.

Ma sottili. Tipo: i ragazzi sotto i sedici anni devono lasciare i locali entro le dieci e quelli sotto i diciotto entro mezzanotte. Dove altro si potrebbero applicare regole così fini, se non in Germania?

Quel che forse ci possono insegnare i genitori tedeschi, è il rifiuto di quello che fanno i genitori americani, una pratica soprannominata hovering, dove il genitore-elicottero veglia e sorveglia perennemente i propri figli. I tedeschi no. Una volta insegnato a stare in strada senza rischi, mandano i figli a scuola da soli.

I prodigi americani

Un altro best seller non ancora arrivato in Italia è “Off the Charts” di Ann Hulbert, dove si raccontano le storie segrete di alcuni enfant prodige americani.

Ore strappate all’infanzia per sviluppare il talento in una società che mitizza il successo individuale.

Possiamo davvero imparare qualcosa? I bambini prodigio sono una razza a parte o sono solo bambini più tenaci degli altri? La tenacia è una dote?

Il racconto ci porta a una conclusione che va in direzione opposta rispetto al libro precedente. Non soltanto serve tanto hovering con i figli, ma bisogna stargli col fiato sul collo se vogliamo che diventino adulti di successo.

Norwich e la non competitività

Diciamo di essere orientati a un modello di genitorialità senza stress, senza hovering e con poca competitività. “Quando un ragazzo segna due goal, viene sostituito per dare l’occasione di segnare a un altro ragazzo”.

Vi piace questo metodo? Funziona a Norwich City, una cittadina inglese che ha il curioso primato di avere pochi abitanti e tanti atleti che salgono sul podio.
La lezione di Norwich piace anche a noi, però nessuno ci ha scritto un libro.

La “non-competitività”, il “non-stress” sembrano essere metodi migliori per diventare adulti. Un metodo che avvicina al successo attraverso valori che contano. Valori buoni e non scorciatoie.

Il successo o il flusso?

I risultati dell’educazione sono sempre ambigui. Osservando bambini e ragazzi possiamo notare che dal loro punto di vista la realizzazione conta molto di più del successo.

Cos’è la realizzazione? Quel senso interiore di padronanza. Quel momento in cui il difficile diventa facile. La gara vinta. La presentazione eccellente. L’inafferrabile senso di padronanza, che sia nei muscoli o nella testa, è molto più appagante della concretezza del successo e della vittoria.

Ciò che ci sostiene in qualsiasi competizione è lo stato interiore. Il punto in cui la competizione sparisce. Ciò che ci rafforza nella lotta è il momento in cui dimentichiamo la lotta.

Le catene della causalità

Alla base dei manuali per genitori c’è quella che potrebbe essere chiamata “la catastrofe causale”. Vale a dire: per valutare la correttezza o la scorrettezza di un certo metodo di crescere i bambini, bisogna valutare l’adulto prodotto da quel metodo.

Le catene delle causalità umane sono, però, se non infinite, lunghissime. Prima o poi le cattive conseguenze dell’educazione usciranno fuori, è sicuro.

Il punto è che noi detestiamo il metodo del genitore elicottero non perché a lungo termine non pagherà in termini educativi (forse pagherà pure). Lo detestiamo perché è odioso, adesso.

Lo scopo di un bambino è essere un bambino

L’infanzia – come il vivere in generale – non deve essere considerata come una catena di cause che portano a un risultato finale. “Fai questo e succede quello” non funziona, mai.

Niente in particolare funziona nell’educazione dei bambini, proprio perché tutto funziona. Se i bambini sono felici, se acquisiscono padronanza, è tutto ciò che possiamo chiedere per loro. Che sia a Berlino, a Brooklyn o a Milano, niente funziona a lungo termine, perché l’errore è proprio pensare che ciò che conta è il lungo termine.

Un filosofo russo dell’Ottocento, Alexander Herzen, aveva visto morire annegato uno dei suoi figli. Dopo questo fatto scrisse: “Visto che i bambini crescono, pensiamo che lo scopo della vita di un bambino sia crescere. Lo scopo di un bambino è essere un bambino. La natura non disdegna ciò che vive anche solo un giorno, ma versa tutta se stessa in ogni momento. Il dono della vita è nel flusso. Dopo è troppo tardi”.

GG come educare i figli1

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