C’era una volta un re: a cosa serve raccontare favole ai bambini?

da | 19 Dic, 2017 | Libri, Lifestyle

Forse non tutti sanno che la versione originale di Pinocchio prevedeva un malcapitato burattino impiccato dal Gatto e la Volpe pronti a tutto per rubargli i denari (la Fata Turchina fu introdotta dai censori successivamente). O che una delle sorellastre di Cenerentola, per infilare il piede nella scarpetta di cristallo (detto per inciso, il cristallo è frutto di un fortunato errore di traduzione) se ne sia amputata un pezzo con un’accetta. La favola racconta che fu scoperta per il sangue che colava tutto intorno.

Troppo Pulp? In una indagine di pochi anni fa, il giornale britannico The Times inseriva nella classifica dei più famosi film dell’orrore l’innocentissimo Bambi. Lapsus del redattore? No: chi di noi non ha un ricordo traumatico della morte della mamma del cerbiatto (o del papà del Re Leone, Simba)? O della fine straziante della Piccola Fiammiferaia? O delle torture inflitte al lupo dai Tre Porcellini? O della bara di cristallo della Bella Addormentata?

Abbiamo cercato di entrare nel mondo incantato delle fiabe, osservandole con gli occhi dei bambini, assieme a Monica Mazza, psicologa e psicoterapeuta del Servizio di psicologia dell’Azienda sanitaria di Torino.

Favole per bambini: un serbatoio per la crescita

Ci perdoneranno i puristi se usiamo come sinonimi i termini favola e fiaba. La distinzione, in letteratura, dice che la favola è un componimento scritto con intendimenti morali ed educativi, con protagonisti gli animali (simboli dei vizi e delle virtù degli uomini). Fiaba è invece la narrazione con protagonisti umani, magari coinvolti in avventure straordinarie con personaggi dai poteri magici come fate, orchi e giganti.

Le favole sono frutto della fantasia degli adulti, ma anche strumenti per crescere. Che differenza c’è tra un racconto e una favola? “Possiamo distinguere tra scrive le favole e chi le utilizza — risponde la dottoressa Monica Mazza -, in questo caso i bambini. Gli autori proiettano nella fiaba qualcosa di sé, mentre i bambini attingono informazioni, partecipano immedesimandosi alle vicissitudini dei protagonisti. In questo senso, le fiabe, figlie dei miti, mantengono il loro senso più antico: attraverso le prove che di volta in volta si presentano, i protagonisti affrontano peripezie, combattono, cambiano, crescono”.

Davvero una fiaba di quattrocento anni fa contribuisce a mettere in guardia un bambino del ventunesimo secolo? “Sì, la favola, più che servire come modello educativo serve per l’identificazione. Prendiamo Cappuccetto Rosso: in primis mette in guardia dai lupi (non solo quelli reali, anche e soprattutto quelli simbolici) e in secundis insegna il processo da percorrere attraverso il quale i bambini sperano che tutto finisca bene. Le fiabe rappresentano un modello rassicurante soprattutto nel finale. I finali ricompongono e rassicurano. Esistono eventi o situazioni tragiche all’interno del racconto, come la morte della mamma di Bambi, però poi la storia finisce bene”.

Favole per i bambini

L’importanza del lieto fine 

E le storie che finiscono male? “Queste sì che sono il frutto della fantasia degli adulti e non uno strumento utile alla crescita dei bambini. Quelle tramandate dalla tradizione sono dei sospesi, delle tragedie, non vere e proprie favole. Spesso i finali tragici sono stati cambiati perché non erano accettati dalla cultura popolare, dal quieto vivere, dalla religione e forse anche dalle regole del commercio. Lo spostamento da un finale tragico a un evento anche doloroso, ma con un finale sopportabile, è lo spostamento che serve per passare dalla necessità dell’adulto di esprimere e liberare se stesso da un trauma, al modello educativo che risolve il trauma nella narrazione. Per scrivere una fiaba come strumento a uso dei bambini (non solo commerciale, beninteso) bisogna confezionare il racconto in modo che il finale sia sopportabile per un bambino”.

La violenza nelle favole per bambini

Bruno Bettelheim, psichiatra e psicoanalista austriaco vissuto negli Stati Uniti, ha scritto un libro sulle fiabe (Il mondo incantato, 1977) in cui dice: “il significato della fiaba è diverso per ciascuna persona, e diverso per la stessa persona in momenti differenti della sua vita. Il bambino trae un significato della fiaba a seconda dei suoi interessi e bisogni del momento”. Siamo sicuri che la violenza presente in alcune fiabe sia un ingrediente costruttivo?

La violenza e l’aggressività possono essere costruttive nel momento in cui sono rielaborate da chi le ascolta, che riesce poi a ri-raccontare quel qualcosa di tragico che talvolta la vita presenta. Prendiamo le tragedie greche: sono piene di delitti perpetrati ai danni dei bambini e viceversa: figli che uccidono i propri stessi genitori e addirittura incesti. Uno dei molteplici sensi della tragedia era proprio quello di fornire gli strumenti per rielaborare fatti altrimenti inenarrabili. Come le fiabe: si spera in qualche magia, questo sì, ma intanto si va avanti”.

La fiaba e la vita quotidiana

Le fiabe cambiano, evolvono, si adattano al contesto sociale e culturale. Prendiamo Astrid Lingren, la mamma di Pippi Calzelunghe. In Italia i suoi libri hanno avuto meno successo rispetto al resto d’Europa. Perché? Forse perché il modello educativo del Nord Europa prevede una autonomia e una libertà che non era condivisa dalle mamme degli anni ’70 e ’80 (non dimentichiamo che Pippi era orfana di madre e viveva da sola in compagnia di un cavallo e una scimmia). “A più di cento anni dalla nascita, Astrid Lingren vive un momento di grande apprezzamento anche in Italia, perché non rischia più di entrare in conflitto con il modello materno“.

Astrid Lingren era una ragazza madre e la figlia a cui raccontava le mirabolanti avventure di Pippi era in quel momento malata di polmonite. “Magari all’epoca, la scrittrice voleva anche un poco consolare se stessa, oltre che presentare gli aspetti positivi in una situazione a prima vista svantaggiata”.

Il “finale aperto” non piace

Finali tragici e lieto fine piacciono. Ciò che proprio non va giù ai bambini sono i finali aperti. “Neanche agli adulti piacciolo le storie che finiscono, un po’ come non piace una casa senza tetto. Lo scrittore deve fare il suo mestiere! Il bambino vuole che qualcuno gli dica cosa succede, dopodiché sarà in grado di affermare se gli piace o no”.

Come si gioca con le fiabe? “Il primo a giocare con le favole è chi le scrive, perché è un divertimento. Poi i bambini ci giocano un po’ da soli, in maniera spontanea. Le raccontano e le reinventano. E poi ci sono le terapie vere e proprie, gli “atelier della fiaba”, come sono chiamati in psicologia. In questi incontri terapeutici, i bambini giocano con le fiabe, montano il copione, assegnano i ruoli, inventano varianti per raccontare e rielaborare qualcosa che sta loro a cuore. In questo modo esprimono cose incredibili su di loro e sul loro vissuto”.

Giochiamo un po’ anche noi, allora. C’è una versione di Cenerentola in cui si fa il tifo per le sorellastre e la matrigna, viste come eroine che vogliono emanciparsi. Ma ha riscosso poco successo. Era un tentativo sfortunato o i bambini sono effettivamente tradizionalisti?  “Dipende dai momenti e dai condizionamenti culturali. Cenerentola era un po’ bacchettona, questo sì, però riesce a capovolgere la situazione: c’è la magia e la magia vince. Forse in alcune epoche e in alcuni ambienti, la versione che fa il tifo per le sorellastre sarebbe stata accettata meglio dalla cultura popolare”.

L’aggressività e le favole

Per tornare alle molteplici varianti di Cenerentola, ne esiste una in cui era la madre a infliggere i tormenti alla fanciulla. Pare che solo in seguito sia stata introdotta la figura della matrigna: che altro non è se non il lato oscuro della madre, quello che prova sentimenti contraddittori, che fa paura ed è quindi meglio rendere “altro da sé”. “L’ambivalenza mamma/matrigna mostra una scissione nella relazione tra mamma e bambino. In ogni relazione c’è una pulsione aggressiva, che non per forza deve essere distruttiva, come a volte succede nei fatti di cronaca. L’aggressività esiste e può inquietare, ma è un ingrediente ricorrente nei rapporti. Posso dire a mio figlio: ‘Ti strozzo!”’ quando mi arrabbio, ma lo dico serenamente, perché sappiamo entrambi che non succederà”.

Anche qualche ninna nanna, pur avendo una dolcissima melodia, nasconde inquietanti ritornelli. Perché? “Anche quello delle ninne nanne è un modo di rappresentare l’ambivalenza dei sentimenti – dice Monica Mazza -. C’è quella che dice che gli scarafaggi si mangiano i bambini, quella dell’uomo nero che lo tiene un anno intero. Ma tutto è cantato dolcemente. L’aggressività si esprime, perché ogni tanto tutti perdiamo la pazienza ed è normale ed è bene saperlo, ma la minaccia non si concretizza in azione. E i bambini chiedono di ascoltare la canzone ancora una volta, perché ne sono consapevoli e l’emozione li coinvolge e li tranquillizza”.

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