Una famiglia in Cina

da | 28 Set, 2016 | Persone

“Viviamo su due fusi orari diversi, in bilico tra due mondi tra i quali cerchiamo di mantenere un equilibrio”: quattro anni fa Simona e Alessandro e i loro tre figli, Edoardo, Eugenio e Maria, sono partiti da un paesino italiano per una delle più internazionali e dinamiche metropoli del mondo, Shanghai. “Inizialmente l’ipotesi era di rimanere un anno ma ancora non siamo tornati – racconta Simona -. Nelle nostre valigie alla partenza avevamo messo solo l’essenziale: molti libri, molto parmigiano, molto caffè e il Bimby! Prima di salutare gli amici e la famiglia abbiamo chiesto a ciascuno di affidarci un oggetto ricordo, qualcosa che sintetizzasse il calore di casa loro. Così una presina da forno, un presepe siciliano, un libro di ricette tradizionali e tanti altri semplici oggetti sono stati preziosi compagni di viaggio che hanno arredato la casa e riempito i vuoti quando ci prendeva la nostalgia”.

Le luci della città

“Il primo impatto con la Cina è stato di grande entusiasmo ma anche uno choc nel vedere un cielo così uniforme e grigio: all’arrivo ci ha accolto un tifone, non avevamo mai visto così tanta pioggia e gli alberi volare. Primo impegno: cercare casa. Alessandro e io propendevamo per un edificio moderno, un grattacielo da cui vedere le luci della città di notte, ma i ragazzi desideravano una zona in cui si potesse andare in bici. E così abbiamo scelto il quartiere di Hongquiao, un po’ fuori dal centro, immerso nel verde. Ora stiamo per traslocare, perché il tetto cade a pezzi. Ogni volta che piove si allaga qualche stanza e, invece di ripararla, il proprietario ha deciso di demolire la casa e ricostruirla. Funziona così, qui. Da un giorno all’altro spuntano nuovi quartieri, tutti all’apparenza moderni e funzionali. Verso la fine dell’estate, piove, piove e piove: ci manca il cielo e ci manca la vista, quella delle montagne e delle colline dietro le nuvole. Anche quando il clima è più asciutto, il cielo non si vede facilmente perché la città è inquinatissima nonostante il governo stia iniziando a prendere delle misure per ridurre lo smog. Come molti qui, abbiamo scaricato un’app che misura l’inquinamento: quando supera un certo livello non si esce più di casa se non per l’essenziale – scuola, lavoro, spesa – e tutti i cinesi usano la mascherina”.

Mesi di silenzio

In Cina fino a pochi anni fa le famiglie potevano avere un solo figlio: come cambia la società quando la maggior parte dei bambini sono figli unici? “È un paese decisamente bambino-centrico. Il figlio unico è venerato, superprotetto e su di lui si riflettono tutte le aspettative dei genitori e dei nonni. Una condizione molto pesante: i ragazzini studiano tantissimo, sentono grande pressione sulle loro prestazioni e i tassi di suicidio tra i giovani sono elevati.

Decisamente meno stressante e più frizzante l’ambiente nelle scuole internazionali. I nostri figli frequentano la scuola con programma canadese-americano perché in quella cinese è molto difficile entrare per uno straniero. “I primi mesi per i due maschi sono stati tempi di silenzio: la barriera linguistica è stata forte, si sentivano imbarazzati per il loro inglese scolastico, solo a Natale hanno iniziato a parlare. Fino a quel momento mutismo totale. Maria si è inserita con più facilità, comunicava da subito bene e ora è lei in famiglia quella che parla meglio il cinese. La usiamo spesso come traduttrice quando la situazione si fa complicata”.

Vita in Cina

“È un paese pazzesco la Cina, non smette di sorprenderci. Ho riportato le mie prime impressioni su un blog, AlluCINAti, che racconta lo stupore dei primi tempi: la carne appesa fuori dai ristoranti, i grattacieli con le baracche intorno, i dentisti che lavorano per strada. La velocità con cui interi quartieri vengono costruiti e il contrasto tra modernità e tradizione. All’inizio della nostra avventura ci sentivamo viaggiatori alla scoperta, facevamo tante cose sempre diverse, poi abbiamo incominciato a ricrearci la quotidianità, perché i bambini non fossero troppo spaesati. La nostra casa è un po’ come era in Italia, ma mangiamo tanta cucina cinese (che ci piace da pazzi!) e qualche volta la sera si gioca a Mahjong.

Dalla Cina abbiamo imparato molto e alcune abitudini le porteremo con noi al ritorno, come quella di bere acqua calda, in ogni luogo e momento: quando entri in una casa o in un locale per prima cosa ti offrono una tazza fumante. È considerata un toccasana per tutto, dai calli alla febbre. Così come lo zenzero e l’aglio, che vengono aggiunti a ogni piatto. Io ho preso l’abitudine di strofinare lo zenzero sulla fronte quando ho il mal di testa, e un po’ funziona. Un’altra usanza giustamente apprezzata è l’agopuntura, la dottoressa tradizionale cinese è fiera di me, che la faccio fare anche ai bambini. Un’abitudine insolita è quella di andare in giro per il quartiere in pigiama: segnala l’appartenenza a un quartiere della città, è un segno di orgoglio, specie se la zona è pulita e moderna. All’inizio ci sorprendevamo nel vedere adulti e bambini passeggiare in pigiama per le strade, ma quando Maria, dopo aver dormito da un’amichetta, è tornata a casa in camicia da notte, ci ha fatto piacere: si è davvero ambientata! I cinesi hanno il culto del benessere e si prendono cura del corpo in modo spontaneo. Approfittano di ogni momento per fare un po’ di ginnastica: non è insolito vedere gente che fa flessioni alla fermata del bus o stretching in coda nel negozio. I parchi cittadini sono una palestra a cielo aperto, con persone di ogni età che fanno ginnastica. Il concetto è che chi sa qualcosa lo mette a disposizione della comunità, come il maestro di tai-chi che fa lezione sull’erba. E poi adorano ballare spesso intonando i canti della rivoluzione.

Due volte l’anno torniamo in Italia per fare scorte di affetto, cioccolata, parmigiano e gelato. Ogni tanto ci concediamo un viaggio per scoprire l’Asia – per vedere il verde da Shanghai devi prendere l’aereo perché tutt’intorno ci sono solo case e cemento – così scegliamo luoghi con una natura bella e rigogliosa come lo Sri Lanka e la Malesia”.

Un po’ di folklore

“Dopo quattro anni il mio cinese è ancora scolastico – racconta Simona – una lotta quotidiana per non dimenticare quello che ho appreso il giorno prima! Le mie chiacchierate sono per lo più con le ambulanti del mercato e con un anziano sarto, mentre gli amici sono per la maggior parte expat come noi. Il ruolo delle donne qui, ahimè, è sovente quello di ‘moglie di’ perché nella maggioranza dei casi è il lavoro dei mariti il motivo del trasferimento. Così quando ci si incontra tra mamme le prime tre domande sono: di chi sei moglie? Da quale azienda venite? Di cosa ti occupavi prima? Io ero insegnante, ora sono in aspettativa. Il ruolo di ‘moglie di Alessandro’ è riduttivo: io ero e sono mille altre cose.

Così il primo anno me lo sono preso per orientarmi, scoprire Shanghai e capire cosa potevo fare per dare un significato a questa esperienza. Da subito ho riempito il computer di appunti, foto e articoli, annotando tutto ciò che mi colpiva, dalle usanze della Cina, alla condizione femminile locale, alle reazioni dei miei figli nell’adattamento a un mondo così nuovo. Per più di un anno ho lavorato con un’amica arredatrice creando tovaglie cucite su misura. Poi ho preso contatti con un’associazione di volontariato che si occupa di bambini migranti, quelli che si spostano da una zona all’altra della Cina seguendo i genitori e perdono il diritto all’istruzione e alla sanità perché gestite localmente. Questi bambini non possono più frequentare la scuola statale: con l’associazione raccogliamo vestiti e fondi per finanziare borse di studio presso scuole che hanno il permesso di accoglierli. L’esperienza più intensa è stata quando sono andata con i miei figli e altre famiglie a fare lezione di inglese a questi bambini migranti. Entrare nelle loro scuole, camminare accompagnati da quelle manine nei villaggi di baracche dove spesso la luce elettrica manca ci ha fatto entrare nel cuore di una Cina che si potrebbe anche non vedere mai perché celata all’occhio dell’occidentale per volere dello Stato.

Recentemente, insieme a Francesca, un’amica fotografa, ho aperto un blog sugli adolescenti. L’abbiamo chiamato ‘Dementi e portenti’, perché è così che, passata l’epoca dorata dell’infanzia in cui noi genitori eravamo re e regine, appaiamo ora ai loro occhi e anche un po’ loro, di riflesso, ai nostri. L’intento è di creare una ‘piazza virtuale’ di incontro, per chi ha a che fare con questa fascia di età così fluttuante. Incontrando genitori e insegnanti di teenager da tante nazioni proviamo a capire come funziona da loro. In genere mi piace lavorare sul concreto, per cui cerco di conoscere gli amici dei miei figli, chiacchiero con loro, imbandisco la tavola di prelibatezze italiane e loro si fermano spesso. In molte famiglie straniere non c’è più l’abitudine di cenare insieme e i ragazzi consumano i pasti da soli. Ma un buon piatto di spaghetti servito su un tavolo apparecchiato è tutta un’altra cosa! ‘Cercate di non fare mille domande e di non essere troppo folkloristici come solo gli italiani sanno essere’ si raccomanda ogni volta mio figlio. Ma a me pare che i suoi amici apprezzino il nostro stile folkloristico!”.

Cicogne

Simona è autrice di libri per bambini pubblicati da Effatà Editrice, il cui ricavato va all’associazione Ruah Onlus che si occupa di progetti di scolarizzazione in India e Bangladesh. “Tra i miei libri quello cui tengo di più è ‘Cosa pensavi quando mi aspettavi?’: tre cicogne narrano ai bambini come si può diventare famiglia oggi. Il regalo più bello che si può fare ai propri figli è di raccontar loro come sono stati immaginati e attesi. E si scopre che i figli possono arrivare dal cielo, proprio come è successo alla mia principessa etiope con la quale siamo giunti in Italia a bordo di uno speciale aereo-cicogna!”.

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