Slow Fiber, per un cambiamento più sostenibile del tessile

Slow Fiber è un nuovo progetto contro lo spreco, il sfruttamento e l’inquinamento che ha come obiettivo il cambiamento nel settore tessile, promuovendo un consumo più sostenibile, consapevole e responsabile

“Cosa mi metto?”. È una domanda che ricorre spesso e, dopo un breve e superficiale consulto di un armadio straripante, la risposta, spesso, è: “Non ho niente”. O quante volte girando per bancarelle o negozi ci facciamo attrarre da un indumento per poi scoprire che a casa ne abbiamo almeno altri due molto simili. Bene. Anzi male. Gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato, secondo l’Agenzia Europea dell’ambiente, 270 kg di emissioni di CO2 per persona, per un totale complessivo di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate. Sono stati necessari in media 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie per vestire ogni cittadino dell’UE.

Inquinamento dell’acqua e rilascio di microplastiche

Sempre dal sito del Parlamento Europeo si legge che la produzione tessile concorre per il 20% all’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi di lavorazione, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilascia ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700.000 fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare. Male. Anzi malissimo se si pensa che ogni anno, sempre in Europa, 230 milioni di capi d’abbigliamento nuovi vengono distrutti. Si stima che ben l’85% dei tessili prodotti finisca nelle discariche (che molto spesso, per non farsi mancare nulla, si trovano nei Paesi in via di sviluppo). Al consumo di risorse naturali si è aggiunta la delocalizzazione della produzione aumentando già la diffusa prassi di sottopagare i lavoratori (è cronaca recente di capi di firme prestigiose, carissimi, prodotti in oriente a pochi Euro) ed esporli a situazioni insalubri. Sono dati sconcertanti.

Meno è meglio

Consentendo una disponibilità costante di nuovi stili a prezzi molto bassi, la fast fashion ha portato a un forte aumento della quantità (con riduzione della qualità) di indumenti prodotti, utilizzati e poi velocemente scartati. Il legame con il cibo è fortissimo e due settori così importanti fanno emergere che si è costruita una società su elementi come lo spreco e lo sfruttamento, umano e ambientale. Due pilastri che stanno portando sconquassi notevoli. Per far fronte a questo deleterio fenomeno si stanno adottando diverse strategie: la progettazione dei prodotti realizzata in modo tale da consentire che il riutilizzo e il riciclo siano più facili (moda circolare), sensibilizzare i consumatori ad acquistare meno capi di migliore qualità (moda sostenibile) e in generale orientare il comportamento verso scelte più consapevoli. Un recente studio del Sermig ha evidenziato che sono costretti a scartare molti dei vestiti donati per la cattiva qualità e l’impossibilità di aggiustarli. Per contrastare queste distorsioni è scesa in campo con diverse forze anche l’UE, con regolamenti per chiedere che i tessili siano prodotti nel rispetto dei diritti umani, sociali e del lavoro, nonché dell’ambiente e del benessere degli animali. Inoltre l’UE ha predisposto il marchio Ecolabel, che può essere applicato ai prodotti che rispettano determinati criteri ecologici.

Slow Fiber

Slow Food ha dato vita alla rete Slow Fiber, un progetto condiviso con 22 aziende italiane della filiera del tessile, che “si pone come obiettivo il cambiamento produttivo e culturale nel settore tessile, rendendo tutta la filiera più sostenibile e promuovendo un consumo più consapevole e responsabile. La rete vuole divulgare la conoscenza dell’impatto che i prodotti tessili hanno sull’ambiente, sui lavoratori della filiera e sulla salute dei consumatori. L’idea comune è quella di recuperare la consapevolezza e la conoscenza di come vengono realizzati i prodotti, operando affinché avvenga un cambio di rotta verso la sostenibilità dell’ambiente e delle persone”.

Gli Stati generali della lana

Sempre legato al tessile, ma non solo, a Cheese 2025, a Bra dal 19 al 22 settembre, oltre a una panoramica unica di formaggi a latte crudo e produttori da tutto il mondo, vengono lanciati gli Stati generali della lana convocati grazie al progetto interreg Marlaine (finanziato dall’UE) per dare dignità a questo prodotto. Mentre è già noto l’impiego della lana per il tessile, sono poco conosciuti gli impieghi per l’isolamento acustico e termico in edilizia, per i terreni agricoli (ad esempio gli ammendanti a base di lana pellettata, che possono sostituire i fertilizzanti di sintesi, esistono già ma non possono essere posti ancora in commercio per via di ostacoli normativi), nella cosmesi (cheratina e lanolina), nella produzione di bioplastiche e biomateriali (lana in polvere), come assorbente per raccogliere la chiazze di inquinanti marini, invece di usare solventi chimici e altri materiali, e come pacciamante nel settore dell’ortoflorovivaismo. Questo prodotto potrebbe essere una risorsa in più per i pastori che presidiano territori marginali. Occorrono politiche che aiutino a dare dignità a un materiale dalle straordinarie potenzialità a cominciare dalla creazione di centri lavaggio e di stoccaggio della lana.

Facciamo sì che i nostri vestiti non siano uno strumento di inquinamento e sfruttamento, ma un modo per costruire insieme un futuro più pulito, giusto e responsabile.

Di Valter Musso

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