Anche i bambini possono dare una mano

da | 13 Apr, 2015 | Lifestyle

Di rado noi adulti ci aspettiamo qualcosa di buono, in senso materiale, dai bambini. Ci attendiamo, certo, un buon rendimento scolastico e magari sportivo, ma non che si alzino da tavola per riempire una brocca d’acqua o che diano una mano a sparecchiare e rifare i letti. Magari brontoliamo sul fatto che sono pigri e si fanno servire, ma basta che un ragazzino dica “voglio l’acqua” per farci scattare a riempirgli il bicchiere. Quando c’è da rassettare, poi, i genitori – soprattutto le madri – lo fanno prima ancora che i bambini si accorgano della necessità. Non c’è da stupirsi che i bambini non riescano a rendersi conto dell’immensa mole di lavoro che gli adulti svolgono anche per loro.

Nel nostro lavoro in Cascina Santa Brera (San Giuliano Milanese, MI) a volte dobbiamo allontanare fisicamente i genitori (per non parlare dei nonni) impedendo loro di riordinare o pulire al posto dei figli. Per non parlare dello stupore, e a volte dell’indignazione, che mostrano certi adulti quando, nelle feste di compleanno, sono i bambini a preparare panini, tartine e biscotti e a servirglieli. Ma come? Un bambino che serve un adulto? Quello che sfugge è la fierezza dei bambini, che finalmente vengono considerati capaci di fare qualcosa per gli altri. Se ci pensate, c’è qualcosa di molto aggressivo in un adulto che ti serve di tutto punto, molto spesso facendo al posto tuo quello che, con un po’ di pazienza o un minimo di impegno, sapresti fare benissimo da solo, e al tempo stesso si lamenta che non fai niente di utile.

Il messaggio di fondo è: “Tu non sai fare nulla, senza di me saresti perduto, quindi di me non puoi fare a meno”, sottolineando in questo modo, da una parte, l’onnipotenza e l’indispensabilità dell’adulto, dall’altra l’incapacità del minore di soddisfare qualsiasi esigenza sua o di altri. Non c’è da stupirsi che i ragazzini abbiano scarsissima autostima e non sappiano mettersi in gioco, usare impegno e tenacia. A cosa vale fare fatica se c’è qualcuno che sa fare sempre tutto meglio di me? A cosa servo se nessuno ha bisogno di me?

La cura, di sé e degli altri, è un elemento fondativo dell’educazione. È partendo dalla cura quotidiana che si comprende la fatica materiale dell’amore, che si sviluppa l’empatia, che nasce il senso della comunità e, più in generale, il senso di responsabilità verso l’ambiente e gli esseri viventi. Eppure è un elemento che viene sistematicamente svalutato, forse perché tuttora, specie nelle società mediterranee, se ne occupano prevalentemente le donne. E certamente anche perché in gran parte non viene retribuito: conta solo ciò che vale denaro.

Vogliamo insegnare la cura ai nostri figli? Non è difficile: ci riuniamo intorno a un tavolo e decidiamo chi fa cosa, con compiti proporzionati alle possibilità (ma questo va stabilito insieme: chiediamo loro di proporre, non decidiamo tutto noi). Scriviamo un cartellone con turni e attività e cominciamo a sperimentare. Seguendo qualche piccola regola. La prima: non pretendiamo risultati subito eccellenti e cerchiamo di non dare giudizi, anzi, lasciamo che siano i bambini a fare le loro valutazioni e a insegnarsi a vicenda. La seconda: si parte dall’autonomia personale, ma si passa rapidamente a quella collettiva: un bambino di 2 anni può lavarsi e vestirsi da sé, basta lasciargli il tempo necessario; uno di 3 può mettersi le scarpe, riordinare i giocattoli, rifare il letto, sparecchiare. La terza: chiedete spesso ai figli di fare qualcosa per voi, anche solo portarvi un bicchiere d’acqua mentre siete impegnati. La quarta: se combinano qualche piccolo disastro, come rovesciare l’acqua o rompere un piatto, non sgridateli, ma chiedete con ferma gentilezza che rimedino da soli e non aiutateli, semmai spiegate loro come fare. La quinta: fate in modo che i bambini, anche piccoli, finiscano quel che iniziano e seguano tutto il processo. Non esiste che si cucini insieme e poi tocchi ai grandi riordinare e pulire, o che i ragazzi interrompano a metà un lavoro perché si sono stufati e vogliono giocare. Sottolineate che si sono presi una responsabilità anche nei confronti degli altri e quindi, finché il pranzo non è pronto e la cucina in ordine, non si iniziano altre attività, altrimenti nessuno mangerà (chiaramente è meglio iniziare con la pasta in bianco piuttosto che le lasagne). Tenete duro: se per una volta i figli pranzeranno alle due (o salteranno un pasto) non riporteranno danni permanenti; in compenso impareranno una lezione preziosa. I risultati non tarderanno: figli che collaborano spontaneamente, orgogliosi di sé e consapevoli di far parte di una comunità, un clima migliore in famiglia. E meno lavoro sulle vostre spalle!

[Sandra Cangemi – Educatrice, Cooperativa sociale Praticare il futuro]

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