Diventare papà, all’improvviso: una storia di genitorialità ‘migrante’ e la nascita di una nuova famiglia

La storia di Seydou e del piccolo Abdoul, riuniti 8 anni dopo in Italia, e una relazione padre-figlio tutta da costruire: una storia di genitorialità ‘migrante’, tra ricongiungimento famigliare e nuove sfide

Un messaggio, pochi giorni dopo lo sbarco in Italia: è così che Seydou ha scoperto che suo figlio era nato. Da quel momento è iniziata una paternità a distanza fatta di foto, video e chiamate, sempre accompagnata dal dolore di non accompagnare il bimbo nella crescita, di essere solo una voce lontana. Poi, un giorno, dopo una lunga procedura di ricongiungimento familiare, quel bambino arriva in Italia. E ogni giorno diventa una sfida: costruire un legame, recuperare il tempo perduto, ritrovarsi e reinventarsi nel ruolo di papà — all’improvviso.

In fuga dalla Guinea

Nato e cresciuto a Conakry, in Guinea, Seydou non aveva mai pensato di partire: dopo gli studi in economia gestiva un negozio alimentare e di telefonia che andava a gonfie vele, e contemporaneamente svolgeva uno stage in banca.

Ma la vita sorprende, e da un momento all’altro può mischiare le carte. “Una volta, avevo appena finito l’università, mia madre si era rivolta a un indovino – io non ci credo, ma da noi è abitudine diffusa – e lui le aveva detto che presto sarei partito per andare lontano. E che a spingermi sarebbe stata una donna”.

Sembrava poco credibile, e invece in poco tempo tutto è cambiato. “Ho avuto una breve relazione con una ragazza del quartiere e lei è rimasta incinta. Suo padre, un uomo influente nell’esercito, ha reagito con violenza senza cercare il dialogo. Mi disse che avrei dovuto pagare la lezione. Sono andato da mio fratello, che viveva lontano dalla città, dove ho saputo che avevano iniziato a cercarmi e che non si sarebbero arresi. Non ho abbandonato la ragazza che è venuta a stare da noi per un periodo; tuttavia, la famiglia la spingeva ad abortire o a sposarmi, ma lei non aveva accettato — e io condividevo la sua scelta. Quando mi dissero che il padre era arrivato con due pick-up pieni di uomini armati, ho capito che non avevo scelta: dovevo andarmene. Così ho vissuto nascosto per un mese, a mezzanotte andavo nel mio negozio per spostare la merce e venderla altrove. Quando ho messo da parte una buona somma, vendendo tutto ciò che avevo, sono partito”.

Il pericolo vero non lo puoi immaginare

La rotta verso l’Europa lo ha portato prima in Mali, poi in Burkina Faso, Niger, Algeria e infine in Libia. Un viaggio lungo e molto pericoloso. “Mi spostavo in bus, o con passaggi in auto. Ho lasciato il mio passaporto ad Algeri, perché tutti sanno che in Libia è meglio entrare senza documenti. Se ti catturano gruppi armati criminali, dal tuo nome risalgono alla tua famiglia, ti trattengono e chiedono un riscatto. Ma in questo modo non sei più nessuno, è come se non esistessi: non hai documenti, né soldi”.

A Tripoli, Seydou vive per quasi un mese in un rifugio gestito da migranti del Niger. “Era un posto degradato, stavamo in 200 in una stanza, dormivamo per terra. Lì i libici non vengono ma è gestito da nigeriani che portano il cibo. Per pagare il servizio (vitto e alloggio), un famigliare – nel mio caso mio fratello – deve inviare il denaro a queste persone tramite Orange Money”.

La violenza era ovunque. “C’è gente che viene picchiata ogni giorno. Sono quelli che vanno in giro per cercare cibo o lavoro. Ho assistito a due omicidi con i miei occhi; uno di questi era un nigeriano che è stato ucciso per strada perché mangiava all’aperto durante il Ramadan. Mi avevano detto che era un viaggio difficile, ma non mi ero immaginato fino a che punto. Da quando è iniziata la rotta migratoria attraverso la Libia, nel 2009, in Guinea ricevevamo i racconti di quelli che ce l’avevano fatta ma non, purtroppo, di quelli che invece sono morti in questo viaggio. Per cui, finché non lo vivi davvero, non sai cosa aspettarti”.

Attraversare il mare

Il 28 agosto, Seydou è salito su un camion con rimorchio, coperto da plastica, usato per trasportare sabbia. “Ci sono persone che in quei camion sono morte soffocate per il caldo. Se tiri fuori la testa per respirare, ti sparano, perché i trasportatori hanno paura di essere sorpresi dalla polizia. Una volta attraversata Tripoli, si arriva al punto di imbarco.

“Mi aspettavo una barca, vera. Invece c’erano solo sei gommoni per 960 persone: nel mio eravamo in 121. Avevo paura, ma non ho mai pensato di non salire. Stare in Libia era troppo pericoloso, avevo visto e sentito troppe cose terribili, non vedevo l’ora di andarmene, a costo di attraversare il mare a nuoto!”.

Al gruppo in partenza viene consegnato un telefono satellitare per chiamare aiuto una volta arrivati in acque internazionali e una bussola. “Noi ci siamo persi e siamo rimasti in mare 17 ore. Grazie alla chiamata con il telefono satellitare è venuta a prenderci una nave della guardia costiera italiana”.

Anche se terrificante, la traversata si conclude per il meglio, e i 960 arrivano in salvo a Lampedusa. “Una volta in Sicilia, man mano che scendevamo dalla nave, ci assegnavano un numero, casuale. E in base al numero assegnato ti dicevano su quale autobus salire. Me lo ricordo ancora, avevo il 172. Ogni autobus andava in una città italiana, perché dovevamo essere equamente distribuiti. L’autobus è partito, l’autista non parlava francese e non ho capito dove stavamo andando…”. Il sogno di Seydou era di andare a Milano o Roma, ma l’autobus è diretto a Torino, per la precisione a Settimo Torinese. “Sono stato accolto in un centro di accoglienza, da dove ho inoltrato la richiesta di asilo e protezione internazionale”.

Un nuovo inizio, e il peso del senso di colpa

Quando Seydou arriva in Italia è il 4 settembre 2016. Riceve una carta telefonica per chiamare casa e dire che sta bene. Pochi giorni dopo trova un messaggio del cugino: “Il 14 settembre è nato Abdoul!” La notizia lo travolge: è diventato padre, ma a 6.000 chilometri di distanza. “Mi è dispiaciuto molto non essere stato lì quando è nato. Un senso di colpa che mi sono portato dietro per sette anni”.

Il piccolo cresce, ma Seydou ne segue i progressi solo attraverso foto e video, perdendosi la quotidianità e quel contatto intimo che unisce un figlio al genitore. “La mamma stava cercando di rifarsi una vita, Abdoul trascorreva tanto tempo con i nonni, e da piccolo chiamava papà proprio quel nonno che era stato la causa della mia partenza. Nonostante le ostilità iniziali, lo hanno poi adorato e coccolato; nelle videochiamate era sempre presente la nonna, il che non era ideale perché il mio rapporto con loro è molto delicato”. Quando Abdoul inizia a capire che quel signore in video è suo padre, non comprende perché non possa raggiungerlo. “Soffrivo molto. So cosa significa crescere lontano dai genitori: a 9 anni mi sono trasferito a Conakry da una zia per frequentare la scuola.

Che lui crescesse senza papà e con una mamma molto giovane che lo affidava quasi totalmente ai nonni non mi faceva vivere”. Così, Seydou inizia a pensare a un modo per farlo venire in Italia con un visto temporaneo. “Volevo che venisse nei mesi estivi, per costruire un rapporto nella vicinanza. Ma non avevo fatto i conti con la burocrazia: un adulto avrebbe dovuto accompagnarlo e io, come richiedente asilo, non posso rientrare nel mio paese finché non avrò la cittadinanza italiana”.

Alla fine, la mamma di Abdoul propone di avviare le procedure di ricongiungimento familiare, lunghe e complesse, per permettere al piccolo di trasferirsi in Italia e frequentare la scuola. “Ovviamente per me era l’opzione migliore, la mia chance di recuperare il tempo perso. Ma sapevo che sia per lui che per lei la separazione sarebbe stata molto dura. È stata lei a dirmi che, per il bene di Abdoul, era meglio così. Le opportunità che avrebbe avuto qui non sarebbero state le stesse che poteva avere a Conakry: il sistema scolastico è decisamente migliore, e quello sanitario anche”.

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Diventare padre, per davvero

Dopo un anno e mezzo di attesa infinita, arriva finalmente il visto che permetterà ad Abdoul di venire in Italia, un pezzo di carta tra le mani che porta con sé tante emozioni contrastanti. Abdoul arriva un sabato di fine ottobre, una giornata fredda e piovosa, catapultato in una città nuova e diversissima, in un appartamento al quarto piano dove prendere la bicicletta e girare da soli non è consentito. Dopo un paio di settimane, viene accolto con grande calore nella sua nuova scuola.

“Inutile dire che la mia vita è cambiata totalmente. Ha cambiato ritmo, si è riempita all’improvviso. Ma, soprattutto, la responsabilità che mi sentivo addosso è qualcosa che prima di viverla non potevo immaginare”.

Accogliere un figlio di otto anni non è come crescere un neonato. Nessun pannolino da cambiare, ma un rapporto educativo da costruire, un percorso bello ma faticoso per due persone che da perfette sconosciute devono iniziare a camminare allo stesso passo.

“Quando vedi nascere tuo figlio costruisci giorno dopo giorno un rapporto. Per me è stato un po’ come ricevere un pacchetto. E a otto anni non è semplice gestire e modificare comportamenti non adatti al nuovo ambiente. Era cresciuto con i nonni, in un contesto molto libero. Nonostante il suo entusiasmo e l’inserimento positivo a scuola, contenere alcuni comportamenti irruenti non è stato facile”.

Seydou non è solo: vive da più di quattro anni con una compagna, che lo ha sostenuto in tutto. “Il fatto che ci fosse lei è stato fondamentale. Ha una figlia che vive con noi metà del tempo – il resto lo trascorre con suo papà. Era più preparata di me sulle questioni pratiche, come la scuola, ed è stata un grande sostegno. Da solo non ce l’avrei mai fatta. E per Abdoul sentirsi accolto non solo da suo padre, ma da una famiglia, è stato un grande vantaggio. Con la figlia della mia compagna ormai sono come fratello e sorella”.

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Più opportunità, meno libertà

Da giorno dell’arrivo di Abdoul è passato un anno. Parla regolarmente al telefono con i nonni e gli amici in Guinea, e forse il prossimo anno, quando il papà otterrà il passaporto italiano, potrà rivederli. La distanza dalla mamma è un tema delicato.

“I primi mesi voleva parlarci spesso. Ora sente più la nonna che la mamma. Ma sa che presto potrà tornare, e il fatto di poter parlare con loro ogni giorno lo aiuta molto. Quando racconta dell’Italia ai suoi amici, si percepisce il suo orgoglio di vivere questa esperienza. La cosa che gli piace di più è la scuola, soprattutto il rapporto con i maestri. Qui nessuno grida contro i bambini, anzi, lo coccolano molto. In Guinea è diverso: sono più rigidi, e se arrivi in ritardo puoi anche essere picchiato”.

Abdoul adora anche le feste di compleanno e andare a casa degli amici. “A Conakry frequentava una scuola privata, ma i suoi amici abitavano lontano e non li vedeva mai fuori. Andava in bici da solo o stava nel cortile con i cugini più piccoli. Qui sta di più con i suoi coetanei, fa sport, gioca a calcio e va in piscina”. Tuttavia, la libertà che aveva in Guinea gli manca. “Si sente un po’ in gabbia: qui non si può andare in giro da soli a otto anni”.

Seydou sa che il futuro di Abdoul in Italia sarà pieno di opportunità, ma non privo di ostacoli. Il razzismo esiste, anche se non sempre esplicito: si insinua nei gesti quotidiani, nei silenzi, nelle preferenze che escludono. “Personalmente, sul lavoro ho notato atteggiamenti discriminanti: più di una volta ho incontrato clienti che preferivano rivolgersi al mio collega bianco, magari meno esperto. Spesso si trattava di un mio allievo, e quindi alla fine erano costretti a rivolgersi a me. Abdoul, per ora, non si percepisce diverso dagli altri. La sua è una scuola multietnica, eppure ho notato qualche episodio di esclusione. Ma lui, per fortuna, sembra non accorgersene. Al centro di accoglienza, i primi giorni, ci dicevano che ognuno di noi era un libro, con il suo tema, la sua storia. Il razzismo esiste ovunque, anche in Guinea: tra le etnie, tra i dialetti, tra chi si sente superiore. L’etnocentrismo è un vero problema anche da noi, ogni cultura tende a mettersi al centro. Ma possiamo farci spazio, farci strada, e crearci un nuovo futuro se ci sentiamo bene con noi stessi”.

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