Gioia madre, ovvero: quanto tempo ci vuole per sfornare un sorriso?

da | 13 Nov, 2020 | Lifestyle, Persone

Cos’è la gioia? Inseguire i ricordi, vivere il presente, preparare un buon piatto?

Quale lezione avete imparato da questa emergenza? Una? Tante? La centralità della famiglia, l’importanza del contatto fisico e umano?

L’inutilità di andare in ufficio? L’utilità di andare in ufficio? I pagamenti contactless? Il futuro digitale? Il ritorno al passato?
Devo ammettere che finora sono molto confuso, anche se, come tutti, avrò letto chilometri di righe sull’argomento. Fin dal primo mese di lockdown, i nostri intellettuali hanno fatto a gara a sfornare articoli e libri – con una velocità che invidiano pure i blogger – su come sarà il futuro, come si trasformerà la nostra vita, quale passato non tornerà e quante lezioni abbiamo appreso rapidamente. Come se per apprendere davvero non servisse almeno un po’ di tempo. 

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A distanza di mesi, l’unica lezione che ho imparato è che la nostra capacità di prevedere il futuro è una grande fonte di risate.

Stufo dal tentativo di rincorrere il futuro chiuso in casa, ho cominciato a mettere in ordine la quantità di materiale che ho accumulato negli anni. Vestiti, riviste, foto, ricordi. E appunti. Centinaia di pagine e pensieri che ho scritto nel corso dei primi cinque anni di vita del mio primogenito.

Il terrore e la speranza in attesa dei risultato dell’amniocentesi, i primi giorni, le giornate intere da soli in casa, riflessioni sul latte materno, teorie sul fango e le pozzanghere, i chilometri in passeggino, i vari tentativi – falliti – di descrivere il calore del marsupio, tracciare i primi enunciati (in una lingua idiosincratica, fino ai commenti) insieme a messaggi di amore o odio verso i cartoni animati. Un mega-album, tutto a parole.

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Godetevi i primi anni, che poi li dimenticherete. Ci hanno detto tutti così. Ed ero gioioso quest’estate di rileggere i miei appunti, qualcosa che mi può traghettare indietro a quegli anni, nel profondo di gioie e paure ancora inesplorate. Sono i miei appunti.

Li conosco bene. Mi solletica però il pensiero che manchi qualcosa di importante. Come se non fossero fedeli alla realtà. Provo a inseguire i ricordi, ma non li afferro, così accantono la ricerca e penso al domani. Alla giornata che passerò con mio figlio (per motivi logistici non ci eravamo visti da una settimana) e mi immagino come trascorreremo il tempo insieme. La mia mano, in autonomia, apre il frigo e tira fuori gli ingredienti di quello che ho imparato essere il suo piatto preferito. E a mezzanotte accendo il fuoco.

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Farro decorticato a bollire, carote e fagiolini tagliati a tocchetti e la salsiccia che sfrigola in padella (il resto della ricetta lo tengo segreto). Alla nascita di mio figlio padroneggiavo la pasta al pesto e l’insalata di tonno, alimenti sufficienti a soddisfare il mio stile di vita tra trasferte e ristoranti. Il resto l’ho imparato insieme a lui.

Lo svezzamento con la frutta estiva: pesche e banane. Preparare la pastina, stufare le verdure, inventare merendine buone e sane, sostituire completamente sale e zucchero, il fallimento nell’utilizzo delle bucce di patata, la scoperta dei cereali (grano duro, avena decorticata, farro perlato), i nomi dei tagli di vitello e di maiale. 

Un viaggio guidato dalla gioia indescrivibile di vedere quel minuscolo essere sfamarsi con grande appetito, sfinito dopo ore di scuola o al parco giochi. Una gioia – lo ripeto – indescrivibile a tal punto, che nelle migliaia di pagine che ho scritto in questi anni, non le ho mai dedicato neppure una parola. Tranne forse una foto, dove mio figlio dorme a tavola, col piatto vuoto, insieme al commento: “L’uomo creò suo figlio a sua immagine e somiglianza”.

Arriva il pranzo dell’indomani, il piatto raccoglie tutti i complimenti che mi aspettavo. Dopo la solita battaglia su chi mangia gli ultimi bocconi, arriva il post-scriptum. “Lo sai papà? Proprio come prepari la salsiccia, puoi cucinare anche il pesce”.

Va bene, amore. Lezione ricevuta.

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