L’orto, un ambiente unico di apprendimento educativo

da | 18 Set, 2024 | Green, Lifestyle

Il ruolo educativo dell’orto, per istaurare un rapporto di cura e costruire la comunità educante: intervista con Cristina Bertazzoni

L’orto rappresenta in maniera emblematica un ambiente di apprendimento, assolutamente autentico e significativo, dove è possibile costruire e connettere i saperi. Ci permette di essere in linea con le nuove normative sull’apprendimento secondo le quali le conoscenze vanno costruite, nascono attraverso dei processi di riflessione su situazioni e problemi, da esperienze vissute – inizia così la chiacchierata con Cristina Bertazzoni, docente di Progettazione e valutazione pedagogica presso il Dipartimento di Scienze Umane all’Università di Verona e Pedagogia generale e sociale all’Università di Brescia, consulente e formatrice in ambito pedagogico e scolastico da oltre venticinque anni -. Siamo nell’epoca della complessità e dobbiamo stimolare l’intrecciare di conoscenze. Eppure insegniamo ancora discipline separate. L’orto è un momento in cui sinergicamente si incontrano diversi saperi legati all’agricoltura, alla storia, alla geografia, alla produzione e trasformazione dei cibi, alle culture dei vari territori. Quindi è veramente un contesto di apprendimento che consente di attivare approcci complessi anche civici e sociali perché è un’esperienza non individuale, che si condivide con altri, i compagni, gli insegnanti, i genitori e i nonni, quella che Slow Food ha chiamato Comunità dell’apprendimento”.

Con l’orto si instaura un rapporto di cura

L’approccio che propongono gli orti è coinvolgente e globale: devo collaborare, co-progettare, discutere, trovare insieme soluzioni ai problemi e quindi è un modo per sviluppare la capacità di costruire comunità. “Oltre a questo l’orto consente di vivere da vicino il mondo naturale. Crei un rapporto diretto con l’ambiente, con il seme che diventa piantina e poi cibo da mangiare, hai un rapporto vissuto, anche emotivo. Questo aumenta la sensibilità ecologica e l’idea di sentirsi parte di un pianeta, impari a conoscere la verdura e ad apprezzarla.

Ed è solo attraverso questo metter le mani in pasta, vivere delle relazioni che puoi costruire una sensibilità rispetto al mondo; vedere le cose da Lim non ci pone nella stessa condizione di avere un rapporto diretto: con l’orto c’è una relazione affettiva perché si modifica, ha bisogno di noi. È un rapporto di cura e la cura è uno dei modi con cui ti rendi conto di essere parte di un pianeta che è un soggetto vivente, ecologico, con dei bisogni e delle esigenze a cui devi prestare attenzione e con cui entrare in relazione”.

Serve una visione pedagogica condivisa

Da 20 anni Slow Food cerca di diffondere la filosofia dell’orto e costruirli negli istituti scolastici. Troppo spesso la loro realizzazione è lasciata alla buona volontà degli insegnanti, che si scontra con le difficoltà burocratiche. Purtroppo, così, molte buone intuizioni non trovano una continuità negli anni: “La scuola dovrebbe essere un laboratorio di ricerca pedagogica, non l’erogazione di un programma. Invece la scuola italiana è sempre più burocratica e manageriale e poco attenta alla dimensione didattica e pedagogica.

E questo porta ad avere un corpo docenti che spesso naviga in solitudine. Se si ha la fortuna di trovare un insegnante motivato hai l’orto, altrimenti no. E quindi l’orto non diventa strutturale. Manca una visione pedagogica condivisa che tra l’altro non c’è bisogno di inventare, basta seguire le ‘Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola’ del 2012 e la successiva integrazione per avere una scuola bellissima e molto innovativa. Invece siamo rimasti a una scuola tradizionale, ancora centrata sui programmi e sull’erogazione trasmissiva di nozioni, sapendo benissimo che questo limita gli accessi e lascia indietro moltissimi alunni. È una scuola che non parla più ai bambini. Poi certo ci sono delle scuole fantastiche, ma tutto, ripeto, è legato alla buona volontà del singolo insegnante.

È una scuola schizofrenica che non ha neanche un modello culturale pedagogico di riferimento, magari costruito direttamente dai docenti e non imposto dall’alto. Se ci fosse una coesione pedagogica allora si potrebbero mettere al centro le esperienze significative che possono essere interdisciplinari, complesse, di connessione dei saperi e di costruzione progressiva delle conoscenze attraverso le riflessioni e il lavoro maieutico con i ragazzi. È chiaro che in un modello scolastico del genere l’orto c’entra immediatamente perché è un ambiente di apprendimento plurale, che ti consente di fare tutto in maniera interconnessa, interdisciplinare”.

Lo spazio di costruzione di una comunità educante

Slow Food ha ampliato questo progetto cercando sempre di più di accogliere e coinvolgere realtà diverse attorno all’orto, che diventa “Orto di comunità”, questo come si traduce nelle scuole? “Il punto di partenza è che la scuola diventi bene comune: non un luogo appartato, fruibile solo dai bambini, aperto tutto l’anno. Uno spazio di costruzione di una comunità educante. Vuol dire coinvolgere le famiglie, i parenti, i cittadini, il quartiere. Quindi la scuola mette in contatto varie generazioni, per far sentire l’educazione un bene comune, responsabilità di un’intera comunità dove è possibile costruire esperienze in cui bambini, famiglie e realtà del territorio si connettono e costruiscono progettualità comuni, aggreganti e solidali”. Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio: un proverbio africano che sintetizza l’importanza delle relazioni, la necessità di mettere insieme una pluralità di soggetti diversi che dialoghino e collaborino in una delle funzioni principali della società: prendersi cura ed educare un bambino. E l’orto è uno strumento per costruire questo villaggio.

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