Danza classica vs hip hop

da | 20 Gen, 2016 | Salute e Benessere

Per molte mamme (e figlie) esiste una regola non scritta, tramandata da generazioni: il loro sport è “il grande classico”, vale a dire la danza classica, disciplina dell’eleganza che vede in tutù e scarpette l’emblema della femminilità di domani. Ne parliamo con Emanuele Actis Grosso, presidente regionale FIDS (Federazione Italiana Danza Sportiva) e con Jessica Bernardello, direttrice artistica della scuola di danza TenDanse.

La danza classica è davvero “la base di tutto”? “Sì, la classica è la forma più completa e complessa – risponde Jessica Bernardello – ed è fondamentale per lo sviluppo di una postura corretta e della coordinazione muscolare”. Lo studio crea buone basi per qualsiasi tipo di disciplina.” “È vero – conferma Emanuele Actis Grosso – però la metodologia dell’insegnamento classico dovrà subire delle variazioni per stare al passo con i frenetici tempi moderni.”

Dall’arabesque al crip walk. Sneakers, pantaloni oversize e berretti calati sulla testa. Sono molti a preferire percorsi alternativi. L’hip hop, per esempio, supera la dimensione di disciplina artistica. “È una cultura arrivata dalla strada, che trasforma le energie negative e la rabbia giovanile in uno sfogo creativo. Gli street dancer imparano a guadagnarsi il rispetto ballando. È questo che ha reso l’hip hop così famoso”. A dirlo è il rapper americano Little Phil. “Si tratta di due stili decisamente diversi – continua Jessica Bernardello – la classica ha una tecnica accademica, è un’arte, insegna eleganza e disciplina attraverso il controllo coordinato del corpo. L’hip hop è una danza di strada, un mezzo di espressione sociale. Estremamente dinamico e ritmico, è caratterizzato da una maggiore libertà espressiva”.

A che età si comincia? “È opportuno avvicinarsi alla danza già dai 4 anni con i corsi di propedeutica. I più piccoli iniziano con una lezione a settimana e intensificano la frequenza crescendo. Meglio studiare anche altri stili oltre alla classica, per rendere il mini ballerino più versatile e per lasciargli scoprire le sue attitudini. Il programma di una lezione varia moltissimo, ma, in generale, è prevista una fase di riscaldamento cui segue una fase di studio della tecnica”.

La danza influisce nello sviluppo del bambino? “La danza permette di esplorare la propria sensibilità emotiva, sviluppa il pensiero creativo, accresce l’autostima e l’iniziativa personale. Stimola l’attenzione e insegna la disciplina. Dal punto di vista fisico sollecita consapevolezza posturale e motoria, migliora la coordinazione, la forza e l’elasticità. Ha inoltre un valore concreto in termini di aggregazione e socialità, poiché l’allievo si inserisce nelle dinamiche di gruppo e apprende le regole comportamentali di base”.

E per i maschietti? Sfatiamo il mito che la danza sia solo da femmine. “L’importante è che i giovani facciano attività sportiva – dice Actis Grosso -. Ritengo che la danza, praticata come momento ludico-ricreativo o agonistico, possa trasmettere molto alle giovani leve, anche a livello sociale, grazie all’interazione tra diversi generi. Sul tema della ‘virilità’ mi limito a raccontare un aneddoto eloquente: un ragazzino, in occasione di una gara, mi raccontò di essere stato preso in giro a scuola perché ballava. Con molta sicurezza e un sorriso furbetto, ha risposto ai compagni che lo sbeffeggiavano che, a differenza loro, lui poteva vantarsi di essere tutti i giorni a contatto con le femmine, mentre loro erano sempre e solo tra maschi. Ça va sans dire”.

Gli errori da evitare.Spesso i problemi non nascono dai bambini, ma dai genitori – spiega Jessica Bernardello -. Se un bambino o una bambina non ha il talento di un’étoile, l’etica imporrebbe un’estrema sincerità. È fondamentale fornire alla famiglia un feedback chiaro e onesto sulle capacità e sul rendimento di ogni allievo per indirizzarlo al meglio. È necessario dare una motivazione positiva all’impegno, far loro capire che si studia per migliorare e non per diventare primi. Altrettanto importante è non proiettare sui figli le proprie aspettative e, soprattutto, insegnare al bambino ad accettare un insuccesso”.

[Tatiana Zarik]

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