A scuola di cooperazione

da | 12 Mar, 2020 | Lifestyle

Cosa hai imparato oggi a scuola? A cooperare! A scuola di cooperazione significa acquisire importanti competenze pratiche e sociali 

La capacità di cooperare si apprende, come tutte le competenze sociali. È un valore importante che la scuola dovrebbe insegnare: così dicono, almeno, le indicazioni ministeriali italiane del 2012 e anche le raccomandazioni europee, che pongono grande enfasi sulle competenze sociali e di cittadinanza. Purtroppo poco o nulla si muove.

“Sono documenti bellissimi che non sempre riescono ad avere un impatto pratico” afferma Monica Guerra, ricercatrice, pedagogista e docente presso il dipartimento di Scienze Umane dell’Università Bicocca di Milano. “Alle dichiarazioni di intenti non corrispondono sempre pratiche coerenti. Bisogna intraprendere un percorso complesso, un lavoro faticoso che produce risultati duraturi ma non immediati”.

L’adulto deve essere un modello

“Le indicazioni ministeriali non sono innovative – continua Monica Guerra -. Le scuole attive degli anni ‘70, per esempio, investivano molto sul gruppo. Oggi occorre lavorare per diffondere le buone pratiche, valorizzando le tante esperienze già in corso. Le scuole di Reggio Children ne sono la prova, così come i progetti delle Senza Zaino, dove comunità è una delle tre parole chiave”.

Monica Guerra è autrice del manifesto “Una Scuola”, da cui è nata l’omonima innovazione scolastica in corso da tre anni in una elementare statale di Varese, fornisce suggerimenti per una “scuola di cooperazione”. “La mia esperienza, ma anche la letteratura in materia, confermano che la cooperazione non si apprende solo grazie agli esercizi. L’adulto deve essere un modello. Le competenze sociali non si interiorizzano perché qualcuno mi dice o mi spiega come fare. Si imparano soprattutto grazie agli esempi di relazione tra adulti, tra genitori ma anche tra insegnanti”.

C’è poi la necessità di impostare l’intera didattica sulla valorizzazione del gruppo. “Non ottengo risultati proponendo due ore di “scuola di cooperazione” se nel resto del tempo il lavoro è individuale, proprio come succede nella nostra scuola, dove le lezioni sono frontali e non si imposta la didattica sulla base delle competenze”.

Gruppi e lavoro complesso

Non basta mettere i bambini due ore attorno a un tavolo per insegnare loro a cooperare. Si impara con gradualità, formando gruppi dove ciascuno deve avere spazio e imparare a concentrarsi. “In parte si seguono le indicazioni dei bambini, che sanno di cosa hanno bisogno e non sempre scelgono sulla base dell’amicizia. Poi è fondamentale il ruolo del docente, che cerca di comporre il gruppo in maniera eterogenea, leggendo le risorse di ciascuno perché possano essere valorizzate”.

Il compito affidato al gruppo deve essere complesso. “Il che non significa difficile o, peggio, sovradimensionato – precisa -. Deve essere articolato e non prevedere una risposta scontata o di routine. Per svolgere un compito complesso tutti i bambini devono lavorare insieme, ciascuno condividendo le migliori risorse, cooperando e acquisendo, in questo modo, nuove competenze sociali e disciplinari”.

Difficoltà e resistenze

La scuola d’infanzia, che ha meno pressione disciplinare e programmi più morbidi, è storicamente quella che accetta meglio il modello di lavoro cooperativo. Le rigidità arrivano con la scuola dell’obbligo. “Gli insegnamenti e le relazioni tra adulti e ragazzi si frammentano progressivamente con la crescita. Questo non aiuta la cooperazione. Paradossalmente la cooperazione scompare proprio nell’età in cui gli studenti sono più predisposti a questo tipo di lavoro. A 14 anni ragazze e ragazzi hanno ottime competenze comunicative, si sentono fuori dal gruppo pur avendone un bisogno estremo, ma nessuno li educa a stare in gruppo e a farlo bene. Ne derivano troppo spesso esclusioni, problemi e deprivazioni”.

Investire sui docenti

Da dove comincia il cambiamento? Dall’aggiornamento e dalla formazione degli insegnanti. Fino a oggi si è investito troppo poco sulle competenze civiche, un lavoro lasciato spesso alle intenzioni di singoli docenti. Forse anche per questo si fatica a capire il valore di avere vicino persone diverse. E poi bisogna parlarne nei collegi docenti, stimolando l’autoformazione, perché in ogni scuola c’è qualcuno che ha sentito il bisogno di ripensare la pratica didattica e che potrebbe condividere la sua esperienza, contaminando i colleghi e contribuendo a ristrutturare il modo stesso di pensare l’insegnamento. Bisognerebbe valorizzare tante valide esperienze già in corso”.

Articolo di Lidia Romeo

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