Nell’ultimo periodo abbiamo sentito parlare spesso di “combustibili nucleari”, ovvero di quelle sostanze che permettono ai reattori nucleari di produrre energia da sfruttare per la produzione di elettricità. Ma perché si dice combustibile nucleare? I combustibili con cui abbiamo a che fare nella vita quotidiana sono derivati dal petrolio: il gas naturale (quello dei fornelli, per intendersi), la benzina o il gasolio, i quali, per generare energia, bruciano, nel senso che producono una fiamma, anche se non la vediamo, come nel caso del motore a scoppio. Dove sono le fiamme nelle centrali nucleari? L’uso del termine “combustibile nucleare” (si tratta di uranio o di elementi transuranici, il più utilizzato dei quali è il plutonio) è una convenzione degli ingegneri. Dato che anch’esso produce energia, come la benzina, viene “idealmente” accomunato ai combustibili veri. Nelle centrali nucleari, ovviamente, non ci sono fiamme, e se ci sono è segno che i problemi sono grossi, come la cronaca recente ci ha fatto sapere. I combustibili veri, come il senso comune ci insegna, sono tali perché producono fiamme e quindi calore. I combustibili nucleari, al contrario, non bruciano nel vero senso della parola: i nuclei degli atomi che li compongono si scindono liberando energia e i pezzi in cui i nuclei si scindono diventano a loro volta nuclei di altri elementi: da qui tutta la serie di sottoprodotti, spesso radioattivi, che sentiamo nominare quando si verifica un incidente in una centrale atomica.
I combustibili nel vero senso della parola sono coinvolti in una reazione chimica, in cui a rompersi e a riformarsi sono legami chimici tra atomi di molecole diverse. I nuclei qui non c’entrano e se ne stanno tranquilli; o, meglio, non hanno il problema di doversi rompere emettendo neutroni. Il fuoco altro non è che una infinità di reazioni chimiche. Un pezzo di legno, la benzina nel motore o la fiamma del fornello, quando bruciano producono reazioni di ossidoriduzione, vale a dire che una specie chimica (il combustibile) si ossida, mentre un’altra specie chimica (il comburente) si riduce. Il tutto si risolve in una serie di rotture e ricomposizioni di legami, con passaggio di elettroni da una parte all’altra. Ma cosa sarà mai il comburente? È l’ossigeno dell’aria, naturalmente! Bruciare in assenza di comburente è impossibile. Lo sanno bene i progettisti di missili, che il comburente devono portarselo dietro in forma di ossigeno liquido, acqua ossigenata, o monossido di di azoto (noto soprattutto come protossido di azoto, quello che una volta si chiamava gas esilarante). Lo sanno, purtroppo, anche i vigili del fuoco. Negli incendi spesso accade che si raggiunga una temperatura tale da permettere ai combustibili presenti (qualsiasi essi siano) di innescare una fiamma, ma ciò non accade perché non è presente abbastanza ossigeno. Basta però aprire una porta (“mamma mia che puzza di fumo, apriamo la finestra che diamo un po’ d’aria”) e il fuoco si innesca.
[Ugo Finardi – Chimico, ricercatore CNR]