Fecondazione eterologa: storia di una donatrice 

da | 14 Gen, 2022 | Lifestyle, Persone, Salute e Benessere

Claudia vive in Spagna, Paese prediletto dalle coppie che ricorrono alla fecondazione eterologa. Ci spiega perché ha scelto di donare i suoi ovuli

Infertilità secondaria, sterilità maschile, menopausa precoce o ricerca di gravidanza in età avanzata: sono quattro le principali motivazioni che portano le coppie italiane a intraprendere il non facile percorso della fecondazione eterologa.

Per arrivare ad avere un figlio in questo modo serve determinazione, un investimento psicologico, fisico ed economico non indifferente e che tuttavia non basta. Non c’è bisogno solo del supporto della scienza, servono anche altre persone, i donatori di gameti femminili omaschili, cioè coloro che offrono a sconosciuti futuri genitori,  gratuitamente, i propri ovuli e spermatozoi. 

Un gesto importante ma problematico

La donazione è un atto di notevole altruismo che tuttavia suscita più di una perplessità, soprattutto in campo etico. Nel caso di gameti femminili, l’esperienza del dono è ben più complessa e invasiva di quella che ci si può immaginare in una donazione di sangue o nella già più importante donazione di midollo osseo. Le implicazioni, dal punto di vista psicologico e fisico, comprendono il sottoporsi a un intervento per donare una parte di sé preziosa, unica e destinata a trasmettere il proprio DNA e persino l’aspetto fisico del donatore. 

Cosa spinge una persona a compiere un gesto di tale generosità? Ce lo racconta Claudia, italiana residente in Spagna, che ha scelto di donare i propri ovuli a una clinica di riproduzione assistita di Alicante, meta per tanti futuri genitori che vi si rivolgono per veder realizzato un grande sogno: quello di costruire una famiglia. 

La cultura della donazione

In Italia il divieto di fecondazione eterologa non esiste più: dal 2014 le coppie che si sono avvicinate a questo percorso sono decine di migliaia e i bambini nati più di 10.000. 

La possibilità è offerta sia da strutture pubbliche che da quelle private o convenzionate. Il problema è che le cliniche sono distribuite nella penisola in modo poco uniforme e, come in molti altri aspetti che riguardano la famiglia, esistono differenze sostanziali tra una regione e l’altra. 

Un fattore accomuna tutte le strutture sanitarie: i gameti femminili (ovuli o embrioni già fecondati) provengono quasi esclusivamente dall’estero. 

In Italia, infatti, le donatrici sono pressoché inesistenti. Le cause sono da ricercare nell’età avanzata delle donne che, magari a seguito di una fecondazione in vitro, vogliono donare i propri embrioni (l’età massima consentita è 35 anni), ma anche la poca informazione e, soprattutto, una scarsa cultura della donazione. 

Il 94% degli ovuli arrivano sul nostro territorii in stato di crioconservazione e provengono soprattutto dalla Spagna e, a seguire, dalla Danimarca, dalla Svezia e dalla Repubblica Ceca.

Toccare con mano l’infertilità

Uno dei motivi che porta una donna a diventare donatrice è avere persone care (parenti o amici) con problemi di fecondità che non riescono a concepire naturalmente un figlio. Proprio come è successo a Claudia, che racconta lansua storia partendo da suo fratello e che non riusciva ad avere figli. “A mia cognata era stato diagnosticato un problema alle tube di Falloppio.

L’unica soluzione che avevano per arrivare a una gravidanza era ricorrere alla fecondazione eterologa. All’epoca mi ero trasferita ad Alicante e abbiamo pensato insieme che sarebbe valsa la pena, per loro, venire in Spagna a fare un tentativo.

Era l’epoca appena successiva all’abolizione della legge 40/2004, che vietava la fecondazione eterologa. In Italia questa pratica era ancora poco diffusa. Ci siamo quindi rivolti a una clinica della mia nuova città. Non ci ho pensato due volte e ho prenotato i primi controlli per entrare nella lista delle donatrici. Loro soffrivano per questo desiderio negato e aiutarli per me era più che naturale. Inoltre, in quel periodo lavoravo come assistente di volo e avere un figlio non era assolutamente nei miei piani”.

Non proprio una passeggiata

La clinica di riproduzione assistita offre alle donatrici un check-up completo, tutte le visite gratuite, incluse le analisi e diversi test per escludere di essere portatori delle malattie genetiche più gravi e diffuse.

“Nel mio caso – continua Claudia – ho scoperto di essere portatrice di anemia mediterranea, che però in Spagna non impedisce la donazione. Una volta ritenuta idonea, ero pronta per donare. Hanno creato un dossier in cui hanno inserito alcune mie foto: se possibile, la ricevente avrebbe dovuto avere caratteristiche fisiche simili alle mie, almeno per quanto riguarda il colore di occhi, capelli e tonalità della pelle“.

L’iter della donazione consiste in un trattamento di iperstimolazione per potenziare la produzione di ovociti. “Dovevo farmi delle iniezioni nella pancia fino al momento in cui avrei ovulato. I primi giorni ho avuto diversi effetti collaterali, riassumibili in un malessere fisico generale.

Poi finalmente, raggiunta l’ovulazione, sono tornata in clinica per il pick up (o puntura follicolare) che permette di prelevare gli ovociti. Si tratta di un intervento effettuato in anestesia locale, non molto piacevole.

Bisogna programmare un giorno di riposo e diversi giorni successivi con dolori simili a quelli del ciclo mestruale. Sono consapevole che la reazione è soggettiva ed è diversa per ogni donatrice. Nel mio caso, ho sentito che il mio corpo gonfiarsi per via del bombardamento ormonale. Poi, dopo il pick up, è tornato tutto come prima”.

Centrare l’obiettivo? Non sempre

Secondo i dati scientifici piùrecenti, la percentuale di successo della fecondazione eterologa con ovodonazione va dal 37% al 70% a seconda delle patologie e delle condizioni specifiche dell’utero.

“Purtroppo per mio fratello e mia cognata non è andata come speravamo: non sono riusciti a ottenere la gravidanza tanto sognata. Non mi sono però pentita di aver scelto di donare.

Non lo rifarei una seconda volta, perché è stato piuttosto invasivo, ma sono felice di averlo fatto almeno una volta nella vita. Quando andavo in clinica per gli appuntamenti previsti guardavo i visi delle donne in sala d’attesa. Molte di loro piangevano, magari erano già alla seconda o terza esperienza di impianto fallito: lì mi sono resa conto di quanto il mio sacrificio avrebbe potuto davvero cambiare la vita a un’altra persona”. 

Anonimato: sì o no?

In generale, in Spagna come in Italia, la legge prevede l’assoluto anonimato della donatrice, a eccezione di rari casi come la presenza di malattie genetiche del bambino o la necessità di particolari trapianti. Il contrario avviene invece negli USA, dove è possibile conoscere l’identità della donatrice e addirittura contattarla. 

“Alcune cliniche spagnole danno la possibilità di sapere se i propri ovuli hanno portato almeno una donna alla conclusione di una gravidanza e quindi alla nascita di un bambino. La clinica alla quale mi sono rivolta, invece, non mi ha dato alcun responso. Ora non accade più, ma all’inizio ogni tanto ci pensavo e immaginavo un eventuale bambino con il mio DNA in qualche parte del paese o, chissà, magari in Italia. La verità è che in fondo mi piacerebbe saperlo”.

In Spagna, la fecondazione eterologa è legale dal 2006, eppure spesso anche qui parlarne è ancora tabù, e questo vale sia per le riceventi che per le donanti.

“Qui le cliniche sono numerose, eppure è un’esperienza di cui si parla troppo poco. Chi dona o riceve preferisce generalmente non raccontare nulla. Questo accade nelle città più piccole; ovviamente a Madrid o Barcellona c’è più apertura mentale.

C’è molto timore del giudizio e si fatica a raccontare la propria esperienza. Questo vale ancora di più per i riceventi: una coppia di mie amiche ha avuto un figlio grazie all’eterologa maschile e il loro percorso ha avuto ostacoli, soprattutto per quanto riguarda l’accettazione da parte delle famiglie. Anche qui, nelle città di provincia e nei paesi, c’è ancora tanta strada da fare”. 

Gratis o per soldi?

In Spagna il rimborso spese previsto per le donatrici si aggira attorno ai mille euro. Una somma che prevede la copertura delle giornate lavorative perse e l’impegno previsto nel seguire l’iter di stimolazione ovarica. Molte cliniche inoltre offrono anche visite e check up gratuiti per un periodo più lungo. 

“La ragione economica non è certo quella che spinge la maggior parte delle donne a donare – spiega Claudia -. Il primo motivo resta ovviamente quello empatico, ovvero il fatto di sentirsi in potere di aiutare qualcuno a creare una famiglia, che è una motivazione davvero forte.

Dobbiamo però tenere presente che l’età media delle donatrici è tra i 20 e i 25 anni e molte di queste sono studentesse. Spesso per le ragazze si tratta di una somma che può fare comodo e alcune di loro si sottopongono anche a due o tre donazioni per ricevere il rimborso”. 

Finalmente mamma 

Ai tempi della donazione, avvenuta sette anni fa, Claudia non pensava alla maternità: oggi invece è mamma di un bambino di quattro anni. 

“Poco dopo la donazione ho conosciuto il mio compagno, originario di Alicante. Lui aveva già due figli dal suo precedente matrimonio, ma abbiamo sentito subito il desiderio di avere un bambino nostro. Ecco, non conosco il motivo, ma nonostante avessi solo 26 anni quel figlio non arrivava.

Più passavano i mesi e più lo desideravo, stava diventando un’ossessione.

Mi sentivo la compagna di serie B, quella che non riesce ad avere un figlio. Sembra stupido dire certe cose, ma in quel periodo la mia testa si riempiva di paranoie e non mi stupisco del fatto che molte coppie vadano in crisi per questo motivo.

Finalmente, dopo più di un anno e poco dopo il nostro matrimonio, sono rimasta incinta.  Mio figlio oggi è la cosa più bella della mia vita, e se penso a quell’anno di attesa, ricordo solo un sentimento di ansia e angoscia.

Posso solo immaginare quel che passano le donne che ricevono l’amara notizia dell’impossibilità di poter concepire un figlio naturalmente e che sono costrette ad affidarsi alla roulette russa delle probabilità.

Questo mi ha fatto riflettere sulla possibilità di conservare i miei ovuli. Fino alla gravidanza non avevo mai preso in considerazione l’idea, ma ora forse, se pianificassi di avere un figlio più avanti, ora ci penserei seriamente”.

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