Lo sculaccione? Rende aggressivi, meglio evitare

da | 18 Gen, 2019 | Lifestyle, Salute e Benessere

Se si arriva allo sculaccione è un fallimento. Non serve, anzi è controproducente, perché porta a comportamenti di sfida antisociali e aggressivi. Ma se scappa? Si può rimediare

L’80% dei genitori allunga uno sculaccione ai figli. Lo ha detto l’Unicef in una ricerca sulla genitorialità in Italia. Ma tirare uno sculaccione serve a qualcosa? Aiuta a educare? Aiuta a crescere? Lo abbiamo chiesto a Ilaria Lesmo, ricercatrice in Antropologia della contemporaneità, specializzata in antropologia medica.

Aggressività da sculacciata

Lo sculaccione non serve, anzi, è controproducente. Porta a comportamenti di sfida nei confronti dei genitori e ad atteggiamenti antisociali e aggressivi. I bambini picchiati sono più inclini all’iperattività e all’indisciplina fuori casa, con ricadute negative anche sul loro percorso di studi.

“Bisogna tenere conto che gran parte dell’apprendimento passa attraverso quello che in antropologia si chiama incorporazione – spiega Ilaria Lesmo -. Si imitano inconsapevolmente le pratiche e i modelli presenti in un certo ambiente. Va da sé che il bambino che viene sculacciato è portato ad adottare atteggiamenti fisici e punitivi. Comunicare attraverso la corporeità può essere immediato, persino più facile, ma non aiuta il bambino a comprendere quel che succede, né lo prepara al dialogo. Tutt’al più (e neanche sempre) lo abitua al rispetto forzoso di certe regole, senza giustificare le regole stesse e senza facilitare l’elaborazione di uno spirito critico”.

A volte lo sculaccione scappa

Ci sono giorni in cui si è molto stanchi, in cui i bimbi sono particolarmente carichi e provocatori, in cui pare difficilissimo mettersi a tavolino a parlare e spiegare. Allora lo sculaccione scappa proprio. “Sì, ci possono essere sculaccioni più comprensibili di altri -continua la dottoressa Lesmo -. Quello del corpo è pur sempre un metodo comunicativo e può succedere che a volte il genitore perda la pazienza. I bambini impareranno che anche questa è una conseguenza a cui possono andare incontro. Il genitore dovrebbe però essere ben consapevole di aver esercitato, attraverso lo sculaccione, il proprio potere e la propria forza, dimostrandosi incapace di gestire altrimenti la sua relazione con il figlio. Sarebbe bene, a freddo, quando la rabbia è passata, spiegare al bambino che cosa lo ha portato a reagire in quel modo”.

L’alternativa educativa

Partendo dalla convinzione che il bambino sia in grado di capire e riflettere, stanno nascendo forme educative alternative a quelle normalmente in uso. I nuovi modelli educativi lavorano su una sorta di apprendimento reciproco. Si valorizzano gli stimoli che vengono dai bambini, soprattutto la loro dimensione creativa. “Oggi un buon approccio educativo cerca di non imporre regole dall’alto, ma piuttosto di decidere insieme ai bambini le regole da applicare nel contesto di interazione. Ovviamente bisogna accompagnarli nella riflessione e nella discussione”.

Questo non significa lasciar decidere tutto ai bambini in una sorta di ribaltamento di ruoli? “Assolutamente no. È piuttosto un lavoro di scambio e di condivisione delle visioni, dei significati e dei punti di vista. Gli adulti cercano di comprendere e valorizzare le proposte dei bambini e le problematizzano in base alla loro esperienza. Adottando un metodo di condivisione, perdono valore i castighi, lo sculaccione in primis”.

Ma se l’hanno fatta proprio grossa?

È chiaro che di fronte a un comportamento pericoloso del bambino, l’adulto deve valutare il rischio. Se il pericolo è lieve si può anche scegliere di lasciare che sia il bambino a rendersi conto da solo delle conseguenze. L’apprendimento dall’esperienza diretta è sicuramente più efficace delle regole e dei castighi imposti dall’alto.

Se il rischio è grande, se ci va di mezzo la loro incolumità o quella altrui, l’adulto deve intervenire, spiegando i pericoli e le possibili conseguenze del comportamento sbagliato.

“Si tratta di favorire la comprensione del bambino considerandolo un degno interlocutore – continua la dottoressa Lesmo – Il bambino porta con sé significati, punti di vista, critiche e considerazioni valide e utili per tutti. Considerarlo il bambino un essere umano completo si producono adulti consapevoli, critici, eventualmente anche dissenzienti più che assoggettati. Si costruisce un mondo dove gli individui non obbediscono meccanicamente alle regole prescritte”.

 

Un passo indietro: è cambiato il concetto di infanzia

I metodi educativi dipendono dall’idea che si ha dei bambini. Gli studi antropologici dimostrano che il concetto di “infanzia” è diffuso nella maggior parte delle società umane, ma questo concetto varia moltissimo da luogo a luogo.

“L’idea di infanzia che abbiamo oggi in Europa – continua la dottoressa Lesmo – è stata elaborata intorno nel diciassettesimo secolo. In passato i bambini erano considerati esseri irrazionali, naturali. Esseri senza storia e senza competenza. Dall’altro lato rispetto ai bambini c’era il modello di “uomo completo”: l’adulto razionale, socializzato e competente”.

L’educazione è stata allora considerata come un processo di plasmazione a senso unico: gli adulti competenti sono incaricati di plasmare i piccoli, così da renderli uomini e donne adeguati. “Oggi, tuttavia, questa visione è criticata. I bambini sono riconosciuti come individui completi e competenti, che sanno come e dove possono muoversi e adottano specifiche strategie di comportamento, sperimentandone anche di nuove”.

Un cambiamento di mentalità profondo, che non permette più di tornare a forme antiche (e definitivamente sbagliate) di “educazione”. Basta botte, basta sberle e basta sculaccioni: siamo genitori del ventunesimo secolo. 

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